Immigrati, un’europa militarizzata e distante

ITALIA. «L’emergenza migranti è una sfida europea da affrontare con misure europee», dice la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in visita a Lampedusa - dove in una settimana ci sono stati 11mila arrivi - su invito di Giorgia Meloni.

Giustamente la nostra premier ritiene quello della presidente della Commissione europea «un gesto di responsabilità e non di solidarietà». Una visita di questo genere ha un grosso significato politico. Equivale a riconoscere l’isola più vicina all’Africa che all’Italia parte dell’Europa e come tale accollarsi le sue criticità, venendo incontro ai lampedusani esasperati. Ma oltre a questo gesto simbolico cosa resta?

L’Europa resta distante nell’affrontare il problema. Nonostante il tanto sbandierato Patto del Lussemburgo siamo ancora alla mentalità del Trattato di Dublino che impone ai Paesi di primo approdo di prendersi cura dei profughi. Prendersi cura sta diventando un eufemismo, poiché la gestione dei migranti con la «cura» ha poco a che fare. I Paesi di Visegrad delle quote di loro spettanza non ne vogliono sapere e hanno annunciato che non pagheranno alcuna multa in caso di rifiuto, come previsto dal Patto. Gli Stati membri più concilianti hanno alzato muri alle frontiere, come quella di Ventimiglia, dove la situazione è insostenibile e ondate di profughi vivono bivaccando sotto i ponti dell’autostrada e nelle zone circostanti, manganellati dai poliziotti francesi nel caso cerchino di attraversare il suolo d’Oltralpe. In Germania la situazione non è poi così diversa, poiché Berlino accoglie i profughi a seconda della convenienza, come ha fatto con quelli siriani, considerati più «adatti» a integrarsi e a migliorare il sistema produttivo, con i suoi tecnici e ingegneri. Non parliamo poi del governo inglese, che dopo aver militarizzato la Manica e cercato di deportare gli immigrati in Ruanda ora pensa alle orrende navi-prigione, come quelle descritte da Dickens in «Grandi Speranze». E in Italia? L’impressione di fondo è che la logica prevalente resti quella del cavalcare le paure e il caos per poi trasformarle in consenso in termini di voti. Tutto è militarizzato. «Bisogna fermarli», dice Salvini da Pontida. La Meloni spiega che per far fronte all’emergenza occorrono soprattutto «una efficace missione europea navale per contrastare gli scafisti e le partenze irregolari» e «strumenti più efficaci di rimpatrio dei migranti illegali» con l’impegno dell’Ue. Dimentica che i blocchi navali sono vietati dalle norme di diritto internazionale. La Marina non viene utilizzata per salvare vite, come nella missione Mare Nostrum, ma per bloccare gli scafi. Se aggiungiamo che i migranti che hanno attraversato il deserto a prezzo della vita vengono rinchiusi in veri e propri lager in Libia, per poi essere gestiti dai trafficanti e che in Italia si ventila di trattenere i profughi per più di un anno in strutture chiuse, allora possiamo dedurre che la logica europea che muove la soluzione del problema è una logica concentrazionaria. Si ostruiscono i soccorsi, si vietano i giubbotti di salvataggio alle imbarcazioni delle Ong, si fanno blocchi, si alzano muri e si costruiscono lager. Dei corridoi umanitari, una delle soluzioni più umane e più efficienti per far arrivare i migranti in condizioni di sicurezza non c’è nemmeno l’ombra. Piani concreti di cooperazione nel Terzo e Quarto mondo, gli unici in grado di frenare un esodo inarrestabile, non se ne vedono.

La collaborazione europea dovrebbe concentrarsi su una politica comune di accoglienza e integrazione, favorendo l’equa redistribuzione. E invece stiamo tornando ai primi del Novecento, il secolo dei lager, al Sudafrica della guerra dei Boeri, dove nacquero i primi campi col filo spinato.

E intanto, mentre il Mediterraneo e l’Europa diventano un universo concentrazionario, si continua a morire. Da Bruxelles nessuno sente il pianto della madre sedicenne che ha perso la sua bimba di cinque mesi in mare.

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