La frattura nella Lega, il momento della verità

ITALIA. A giudicare dagli abbracci esibiti in Parlamento, a dare ascolto alle asserzioni di una loro salda amicizia politica, così salda da estendersi anche al privato, ad accettare la confidenza fatta da Salvini che ha parlato di Giorgia e della sua fidanzata Francesca use a giocare a burraco: se si prendesse atto di tutto questo, si dovrebbe concludere che l’amicizia tra Meloni e Salvini sia destinata a resistere a qualsiasi burrasca politica.

Eppure, sappiamo che anche le amicizie più salde non è detto che riescano a vincere i venti impetuosi, sollevati dagli interessi di partito. E che gli interessi di Lega e FdI non collimino è banalmente lapalissiano. Fratelli d’Italia ha soppiantato il Carroccio nella guida del centrodestra, questo è nel presente fattuale. Meno ovvio che lo sfrattato, pur accettando il nuovo ordine delle cose, solidarizzi con chi l’ha sfrattato.

Per di più, Salvini si trova nella non invidiabile condizione di dover far digerire ai suoi, all’appuntamento elettorale del prossimo giugno, la dolorosa perdita di due terzi dei suoi parlamentari europei. Cinque anni fa aveva fatto toccare al suo partito la vetta del 32%. Ora, stando ai sondaggi, viaggia intorno all’8-9%. È inevitabile che l’imminente voto per l’assemblea di Strasburgo sarà per lui il momento della verità. Nel malaugurato caso, poi, che la Lega si facesse scavalcare anche da FI, e risultasse perciò retrogradata all’ultimo posto della coalizione, quel verdetto potrebbe essere fatale per la sua segreteria.

È chiaro a tutti ormai che s’è creata all’interno della Lega una pesante frattura, per quanto sino ad oggi pudicamente oscurata, tra il suo presente e il suo passato, tra i suoi tradizionali quadri e militanti del Nord e i nuovi dirigenti insediati da Salvini nel resto d’Italia. La Lega del suo fondatore Bossi si era affermata come «partito del Nord», una sorta di sindacato dei ceti produttivi settentrionali (piccola e media industria, artigiani, commercianti, «popolo delle partite Iva»): in una parola, la locomotiva che fa correre l’economia nazionale. Il suo primo segretario avrà anche usato un linguaggio greve, sarà anche ricorso a fantasiose, inverosimili identità padane, a riti risibili come quello dedicato al dio Po, avrà oscillato bellamente, come fossero semplici varianti di una stessa proposta politica, tra autonomia, federalismo, secessione, ciò nonostante è riuscito a stanziare il suo partito in posizioni apicali del potere locale e nazionale. Non bisogna farsi depistare dalla fantasmagorica produzione di progetti, slogan, riti e pensare che gli mancasse un senso molto pratico, molto «padano», di puntare al risultato.

Non altrettanto si può dire di Salvini. Puntando a fare del suo partito una forza nazionale, ha abbandonato il suo popolo di riferimento, il ceto dei produttori del Nord, per catturare la protesta indifferenziata degli scontenti, spesso solo dei ceti marginali. Il boom di consensi raccolti cinque anni fa lo ha illuso di aver fatto il miracolo: aveva raccolto un partito moribondo (ridotto al 4%) e ne aveva fatto il primo partito d’Italia. S’è rivelato invece un successo effimero. Purtroppo per lui, la Lega nazionale è stata soppiantata da FdI, come forza egemone del centrodestra e anche come punto di riferimento di quello che era stato prima il popolo leghista.

Ultimamente, Salvini ha cercato di agguantare un possibile rilancio, adottando le posizioni proprie della destra estrema europea. Una mossa azzardata. Gli ha procurato nell’immediato un’emarginazione e in prospettiva una condizione di irrilevanza nella Ue. Risultato: il partito che vanta la più lunga storia tra i partiti della Seconda Repubblica si ritrova paradossalmente ad essere anche in panne.

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