
(Foto di Ansa)
MONDO. Il grande fotografo Robert Capa diceva che «non esistono foto belle o brutte ma prese da vicino o da lontano». La distanza permette di vedere la realtà nelle sue dimensioni ma solo la vicinanza è una posizione che assicura di cogliere dettagli importanti e decisivi.
Per noi che abbiamo il privilegio di assistere alle guerre da lontano, dovrebbe essere d’obbligo mantenere il senso del tragico e un desiderio sincero di cogliere quei fattori che possono sovvertire la realtà che ha portato agli scontri armati. Visti da vicino i conflitti risultano essere la forma più profonda, più vasta e impunita di violenza sull’umanità. Ma riservano anche segni di speranza: il bene che agisce nei teatri di morte impersonato dai soccorritori e dalle vittime, chi ha perso propri cari e beni materiali realizzati in una vita, che non si lasciano risucchiare nel gorgo dell’odio e della vendetta perpetuando così le cause della guerra.
Decine di migliaia di morti fra i civili, per almeno la metà donne e bambini, la distruzione dell’80% degli edifici, la fame e l’impossibilità di fuggire in luoghi sicuri hanno portato all’indebolimento di Hamas ma non alla sua sconfitta e ancora una cinquantina di ostaggi sono nella Striscia
Chi ha visitato Israele nei mesi successivi al pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 (1.218 morti tra cui 882 civili e il rapimento di altri 252), ha misurato come la strage abbia rappresentato anche uno choc psicologico immenso per gli israeliani, la scoperta della vulnerabilità nella propria terra e il crollo della certezza della sicurezza. In quel tempo, e per molto a venire, fra gli abitanti dello Stato ebraico l’obiettivo della distruzione di Hamas nella Striscia di Gaza con ogni mezzo è stato condiviso a netta maggioranza, non dimenticando la successione di attentati kamikaze messi a segno dall’organizzazione islamista tra gli anni ’90 e inizio 2000 in ristoranti, bar, autobus e strade da Gerusalemme a Tel Aviv ad Haifa, che provocarono centinaia di morti fra i civili, insieme ai lanci di missili dalla Striscia.
Con il passare dei mesi però la guerra ha reso evidente anche fra gli israeliani i connotati di un’azione brutale e barbara, «la vendetta poderosa» promessa da Benjamin Netanyahu già il 7 ottobre 2023 per fare di Gaza «terra bruciata». Decine di migliaia di morti fra i civili, per almeno la metà donne e bambini, la distruzione dell’80% degli edifici, la fame e l’impossibilità di fuggire in luoghi sicuri hanno portato all’indebolimento di Hamas ma non alla sua sconfitta e ancora una cinquantina di ostaggi sono nella Striscia. Davanti alla sede del ministro della Difesa a Tel Aviv c’è un presidio permanente dei familiari dei sequestrati che chiedono la cessazione della guerra e l’impegno politico per il ritorno a casa dei propri cari, i vivi (sarebbero una ventina) e i deceduti.
Domenica 17 agosto in quella piazza sono convenuti almeno 300 mila israeliani, nell’iniziativa denominata «Una giornata per salvare vite», sciopero generale indetto per sollecitare la fine del conflitto a Gaza e un accordo per il ritorno degli ostaggi. A Gerusalemme centinaia di manifestanti hanno bloccato il traffico lungo la «Begin Highway». Nei giorni scorsi invece sempre a Tel Aviv si sono tenute proteste contro la guerra esponendo le fotografie dei bambini gazawi scheletriti dalla fame. Sono iniziative giudicabili tardive ma importanti perché aprono una frattura nella certezza che la sicurezza si possa raggiungere senza un’azione politica. La società israeliana, come ogni società, non è un monolite qualificabile con giudizi generalizzanti. Vi fanno parte intellettuali impegnati da sempre per la pace e organizzazioni come «B’Tselem», il Centro d’informazione per i diritti umani nei Territori occupati. Fondato nel 1989, nello scorso luglio ha pubblicato un documento intitolato «Our genocide» nel quale accusa il proprio Stato di aver messo in atto una campagna sistematica di distruzione del popolo palestinese nella Striscia. Il «Parents circle families forum» invece è un’associazione di 800 palestinesi e israeliani che hanno perso figli o altri parenti nel conflitto: dal 1995 si incontrano trasformando il dolore in una forza di riconciliazione, dialogo e pace.
Il Patriarca latino di Gerusalemme, Cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha più volte dichiarato che la pressione diplomatica esterna è necessaria, tanto più quella delle grandi potenze che devono agire per fermare le armi letteralmente, ma il conflitto non avrà soluzione finché non ci sarà il riconoscimento reciproco della dignità e dei diritti dei due popoli
Anche la società palestinese non è un monolite, assimilabile ad Hamas, ma ricca di gruppi e organizzazioni non governative impegnate nella lotta non violenta contro l’occupazione militare israeliana. Si possono liquidare queste realtà con una cinica e irridente alzata di spalle: ma quale è l’alternativa alla rottura sociale dello status quo? Il Patriarca latino di Gerusalemme, Cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha più volte dichiarato che la pressione diplomatica esterna è necessaria, tanto più quella delle grandi potenze che devono agire per fermare le armi letteralmente, ma il conflitto non avrà soluzione finché non ci sarà il riconoscimento reciproco della dignità e dei diritti dei due popoli. Oggi prevalgono l’odio e politiche di annientamento ma l’orrore finirà e verrà il tempo di ricostruire. Nelle guerre si entra in poche ore, la pace ha invece tempi di costruzione lunghi, richiede tenacia e testimoni, pratiche già in atto per sconfiggere ideologie e mercanti di morte.
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