La leadership di Meloni
e Salvini deve inseguire

Se l’intesa tra Enrico Letta e Giuseppe Conte marcia con le ruote quadrate, quella del centrodestra sembra sempre sul punto di esplodere. Cosa che non accadrà, se la politica ha un senso: Matteo Salvini e e Giorgia Meloni sono fatalmente destinati a stare insieme al governo se, come ci continuano a dire i sondaggi, vinceranno le prossime elezioni; e presto a votare insieme il futuro presidente della Repubblica. La coalizione di centrodestra è in piedi da troppi anni ormai per rompersi, il problema è che non ha più un equilibrio, e dovrà penare parecchio per trovarlo. Intanto per una ragione evidente: Silvio Berlusconi si è ormai di fatto ritirato dalla vita politica; oltretutto le sue condizioni di salute gli consigliano estrema prudenza: al suo posto non c’è un erede. Non lo ha mai voluto fare, e Antonio Tajani, il naturale successore, deve fare l’eterno supplente impacciato dal fatto che comunque il Cavaliere è ancora seduto sul trono.

Forza Italia, senza Berlusconi, ha da tempo perso la funzione di leadership – e questo lo dicono i risultati elettorali – ma soprattutto non può più esercitare quella mediazione che ha finora impedito o, meglio, attutito il conflitto tra gli altri due soci della coalizione, Matteo & Giorgia. È tra loro che si gioca la vera partita per chi comanderà in futuro.

Entrambi hanno ereditato un partito a pezzi, con pochi voti, squassato o dagli scandali o dalle lotte tra le correnti. Entrambi hanno compiuto la magia di far camminare un corpo rimettendolo in salute. Ma ora si sta assistendo ad una staffetta nella corsa al primato che terremota tutto, compresi i rapporti personali tra i due leader, sempre di diffidenza ma mai veramente rovinati. La staffetta consiste nel fatto che Salvini ha prima portato la Lega a oltre il 30%, un successo strepitoso, ma ora sta vedendo questo patrimonio elettorale da primo partito assottigliarsi pericolosamente: dall’estate del Papeete in poi i trionfi alle politiche e alle regionali sono diventati un ricordo (oggi il Carroccio è quotato poco sopra il 20%). Contemporaneamente Meloni ha fatto a sua volta un prodigio: il partito del 5-6% ha cominciato a scavallare la doppia cifra, a salire e salire fino ad avvicinarsi al 18-20%, insidiando i grillini in crisi e il Pd in cerca di una guida, insomma puntando dritto al secondo posto dopo la Lega. Di più: non nascondendo affatto la (legittima) ambizione di toccare la cima.

Se Matteo dopo la caduta del Conte-bis ha scelto la strada del governo, entrando nella «cabina di regia» voluta da Mattarella e Draghi, Giorgia ha deciso di presidiare da sola l’opposizione. Da lì ha cominciato a pungolare la maggioranza e soprattutto il fratello-coltello. Ruolo in fondo semplice: contestare da fuori non è mai stato granché impegnativo. E poi dà il vantaggio di mettere in imbarazzo la Lega che, stando al governo, deve fare i suoi compromessi. Le «riaperture» e i «sostegni» sono diventati il terreno dello scontro: Meloni corre, Salvini insegue. La prima si candida a raccogliere tutto il malcontento che c’è in Italia, il secondo deve fare la fatica di intestarsi ogni risultato strappato a Palazzo Chigi ma sapendo che le mezze misure raramente si trasformano in voti. È per questo che sul coprifuoco, non potendo rompere con il resto del governo, Salvini si è inventato la raccolta delle firme, ma sul caso della mozione di sfiducia individuale di FdI contro Speranza non ha potuto votare come la Meloni lo incitava a fare, e cioè contro «il ministro delle chiusure», pure contestato ogni giorno. Senza contare le mille grane quotidiane: una delle tante è la presidenza del Copasir (il Comitato dei servizi segreti) oggi detenuta da un leghista che dovrebbe essere ceduta – per legge – all’opposizione, cioè a uno di FdI. Ma presto ci saranno anche le nomine alla Rai su cui litigare e ancora le candidature per il voto in ottobre, a cominciare da Roma e Milano.

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