La manovra sarà legge, i malumori di Giorgetti

ITALIA. Non ci si riuscirà entro Natale, come desiderava Giorgia Meloni, ma nemmeno si scivolerà nell’esercizio provvisorio del Bilancio dello Stato. Insomma, entro il 30 dicembre e i due passaggi alla Camera e al Senato, la faticata manovra economica del Governo sarà legge.

Con un ministro dell’Economia che sbuffa e confessa di sperare ogni mattina di poter dare le dimissioni, non sarà certo una manovra da sventolare più di tanto, salvo il fatto che i mercati e la Commissione europea potranno lodare l’Italia per essere riuscita a mantenere sotto controllo i conti dello Stato, presupposto fondamentale per tenere basso lo spread e calmi gli investitori. Questo sarà il vanto della premier e soprattutto del ministro Giorgetti il quale, per quanto imprecando per le difficoltà incontrate, può sottolineare che la manovra è giustamente «prudente» a fronte di un debito pubblico che rimane troppo alto.

Ma Giorgetti ha dovuto vedersela soprattutto con il proprio partito, anzi con il proprio segretario. Matteo Salvini, che non è riuscito ad allargare le maglie della rottamazione delle cartelle, tuttavia non ha esitato a sconfessare nei fatti Giorgetti sul tema delle pensioni: «Ho detto no ad un aggravamento delle condizioni per andare in pensione come avrebbe voluto qualche tecnico del Mef che voleva allungare l’età per andare in pensione» ha dichiarato, attribuendo a «qualche tecnico» una misura approvata da Giorgetti, mandata avanti in Commissione bilancio al Senato fino al momento in cui i due «falchi» salviniani Durigon e Borghi l’hanno platealmente impallinata aprendo una specie di dramma di maggioranza e costringendo la Meloni ad un vertice notturno coi leader. «Per fortuna che abbiamo una leader forte» sospira il capogruppo di FdI Donzelli.

La verità è che il 2026 è l’anno pre-elettorale, e tutti sono già in fibrillazione. La maggioranza per mettersi in sicurezza dovrà fare una riforma elettorale in chiave proporzionale che impedisca ad un centrosinistra miracolosamente unito di prevalere nei collegi maggioritari

Crisi politica sfiorata

Nessuno naturalmente ammette che in qualche modo si è sfiorata davvero la crisi politica, quella stessa che le opposizioni vaticinano man mano che si avvicina la data dell’ultimo Consiglio dei ministri del 2025 in cui sarà varato il nuovo decreto di aiuti all’Ucraina: saranno autorizzate spese per armamenti da inviare a Kiev? Salvini non ne vuol sapere, Crosetto e Tajani dicono che il nuovo provvedimento ricalcherà quelli precedenti, e quindi saranno aiuti «prevalentemente civili» cioè non solo civili: insomma, le armi ci saranno. Con un Salvini così agitato (Zaia in circolazione con 200mila preferenze da far pesare, il Ponte di Messina che perde colpi…) non sono da escludere sorprese. «Ma vedrete che alla fine anche lui farà buon viso a cattivo gioco» dicono i meloniani e quelli di Forza Italia. I quali naturalmente hanno anche loro i guai di casa: ormai è in campo la candidatura del governatore calabrese Occhiuto che, pare con la benedizione della famiglia Berlusconi, punta a sostituire Antonio Tajani alla segreteria e con lui tutta la vecchia guardia (a cominciare dai capigruppo Gasparri e Barelli). Si attendono contraccolpi correntizi.

La verità è che il 2026 è l’anno pre-elettorale, e tutti sono già in fibrillazione. La maggioranza per mettersi in sicurezza dovrà fare una riforma elettorale in chiave proporzionale che impedisca ad un centrosinistra miracolosamente unito di prevalere nei collegi maggioritari. Certo, il cosiddetto «Campo largo» è ancora in alto mare con le trattative e nessuno sa chi la spunterà per fare il candidato premier, ma se dovesse arrivare ad un accordo potrebbe, come è successo alle regionali, mettere a rischio una nuova vittoria del centrodestra che, per quanto probabile, tuttavia non va data per certa.

Nel frattempo ci sarà il referendum sulla giustizia: vediamo chi vincerà tra destra e sinistra-magistrati, e poi potremo consultare gli aruspici su come sarà l’anno nuovo.

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