L'Editoriale / Bergamo Città
Sabato 08 Novembre 2025
La vera sfida? Educare a imparare
ITALIA. Basterà quanto emerso alla VII Conferenza nazionale sulle dipendenze per rendersi conto una volta per tutte che l’educazione dei nostri ragazzi è la vera sfida attorno alla quale si gioca il futuro dell’intera nostra società?
Da tempo quello dell’emergenza educativa è un problema ciclicamente evocato in diversi contesti, soprattutto ogni qual volta qualche teenager, o poco più, si rende protagonista di agghiaccianti episodi di cronaca nera.
Fatti che il circo mediatico dell’informazione (mai definizione fu più azzeccata, in un panorama dove la responsabilità sociale dei media è ormai un vago ricordo) racconta con dovizia di particolari, anche i più agghiaccianti e truculenti, trincerandosi dietro «il dovere di cronaca» e «la completezza della informazione», usati in realtà come paravento per soddisfare l’inesauribile morbosità che la violenza porta sempre con sé. Un modo per acchiappare click e lettori, ma soprattutto per contribuire a diseducare una fascia di popolazione che letteralmente vive in rete e sui social, immersa in una realtà virtuale completamente avulsa e dissociata da tutto quanto le sta attorno, a cominciare dalla famiglia, quando invece avrebbe bisogno di ben altri stimoli per crescere davvero, iniziando da un sincero dialogo con chi sta (o dovrebbe stare) al loro fianco: prima i genitori, poi gli insegnanti.
Il peso del periodo Covid
Il Covid ha certamente avuto un peso rilevante nel far esplodere l’enorme fragilità che avvolge i nostri ragazzi, vittime dell’ansia, dello stress, di una solitudine che nemmeno immaginiamo, ma il contesto pandemico non può essere considerato la vera causa del malessere che oggi è sotto gli occhi di tutti. Tutt’al più, se mai, l’isolamento a cui il virus ci ha costretto, ha fatto da amplificatore a un fenomeno strisciante che noi adulti non siamo riusciti a cogliere per tempo o a cui non abbiamo voluto (o saputo) dare il peso che meritava. L’ansia, la depressione, la bassa autostima di sé, «il male di vivere» che accompagna larghe fette della popolazione adolescenziale non sono certo spuntati come funghi tra il gennaio e il febbraio del 2020, quando il virus «deflagrò» tra le nostre case. Sono, piuttosto, il frutto di un lungo processo di impoverimento culturale prima, e sociale poi, che ha pian piano allargato e reso più profondo il solco generazionale che c’è sempre stato tra genitori e figli.
Incapaci di capire i primi, di farsi capire e di relazionarsi i secondi, i giovani hanno preferito cercare altrove improbabili ciambelle di salvataggio: gioco d’azzardo, droghe, alcol, farmaci, Internet e, buon’ultima, l’Intelligenza Artificiale, a cui già in molti si rivolgono per avere supporto psicologico a zero costi e senza il problema della diffidenza e del disagio nel raccontare ad altri i fatti propri. Un atteggiamento pericolosissimo, di cui gli esperti avvertono già i primi effetti.
Le dipendenze dei giovani italiani
Secondo il rapporto della Società Italiana Patologie da Dipendenza, oltre un milione 400mila studenti hanno partecipato a forme di gioco d’azzardo nell’ultimo anno, mentre il 47% degli adolescenti ha dichiarato un uso di Internet che interferisce con le attività quotidiane, segnalando un consumo problematico delle tecnologie digitali. Dai dati del Parlamento emerge che nella fascia tra i 15 e i 19 anni, quasi 910mila giovani (circa il 37% degli studenti) hanno consumato almeno una sostanza psicoattiva illegale una volta nella vita (620.000, il 25%, nell’ultimo anno). Quanto alla cannabis, 660.000 studenti (il 27%) l’hanno usata almeno una volta nella vita (520.000, il 21%, nell’ultimo anno), 67.000 (il 2,7%) la usano frequentemente (20 o più volte al mese). E quanto alle nuove sostanze psicoattive, 280.000 studenti (il 12%) ne hanno fatto uso almeno una volta (circa 140.000, il 5,8%) nell’ultimo anno. Per non dire della cocaina: il 3,1% degli studenti (77.000) l’ha assunta almeno una volta; l’1,8% (45.000) nell’ultimo anno. Il 45% degli adolescenti ha invece giocato d’azzardo, l’80% ha consumato alcol almeno una volta, e molti in associazione a micidiali cocktail di farmaci, il cui consumo è sensibilmente cresciuto negli ultimi anni.
La vita come oggetto di consumo
Abbiamo fatto diventare la vita solo un oggetto di consumo, un palco per la grande esibizione, perdendo di vista quanto sia necessario avere maestri o testimoni, adulti che sappiano seriamente avventurarsi nel mondo. Nessuno più vuole educare, perché educare è un’attività a perdere, perché richiede tempo, ed è sfiancante. Ma è tutto ciò che ci vorrebbe. Abbiamo riempito le vite di questi ragazzi di potenzialità tecnologica, ma gli abbiamo sequestrato l’anima, il desiderio di guardare lontano, cimentarsi, mettersi in gioco per altri che non sono loro stessi: in una parola, di donarsi.
Chi si occupa del problema educativo?
Siamo o non siamo di fronte a un enorme problema educativo? Eppure chi se ne occupa? Nessuno. Gli unici che hanno fatto sentire la loro voce sono stati il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e Papa Leone, che ha rilanciato il grande progetto educativo globale voluto dal suo predecessore. Francesco. Quanto accade oggi tra i giovani, ha sottolineato il Pontefice, «dimostra che viviamo in un mondo privo di speranza, dove mancano proposte umane e spirituali vigorose». Ma chi le deve dare? La famiglia, principale agenzia educativa della società, è ai minimi storici quanto a tenuta e solidità, mentre la Scuola, altro luogo di formazione per eccellenza, non riveste da tempo il ruolo che le compete. Non basta tornare a ordine e disciplina, al voto in condotta, serve invece un’educazione consapevole del mondo in cui viviamo, serve dare una cultura adeguata a vivere le complessità che il nostro tempo ci pone di fronte continuamente, rapidamente e incisivamente.
Il compito della scuola
Oggi la scuola italiana, non per colpa di chi ci lavora, è spesso anacronistica, incapace di dare a chi la rappresenta la possibilità di continuare ad apprendere per poter dare il meglio. La scuola non deve semplicemente istruire, ma deve educare: ai valori, al significato dei simboli, alla cittadinanza, al rispetto, all’affettività, alla socialità, all’accoglienza, alla diversità… Serve insegnare a imparare «a imparare», non solo sui banchi di scuola, ma sempre, nella vita e nel lavoro di tutti i giorni, perché anche le conoscenze di oggi subiscono lo stesso processo di obsolescenza delle tecnologie che affollano la nostra vita. In tutta questa situazione, i giovani non riescono a sviluppare una capacità di mediazione, restano immaturi, e spesso finiscono con lo sfogare le loro frustrazioni nella violenza, senza nemmeno capire quel che fanno. Vittime e carnefici nello stesso tempo.
È banale dirlo, ma serve l’impegno di ciascuno di noi per ridare ai nostri giovani quello che il Capo dello Stato ha definito «un fronte di libertà», un fronte, ha garantito, la premier Giorgia Meloni, su cui «nessuno si troverà solo». Speriamo sia davvero così, speriamo sia la volta buona. Ma serve un cambio di paradigma, come ci ricordano Edgar Morin e Mauro Ceruti parafrasando Michel de Montaigne («È meglio una testa ben fatta che una testa piena»). L’aumento della complessità - dicono - non è più gestibile, è necessario riorganizzare il sapere, adattandosi al nuovo per tenere insieme le sue diverse componenti: «Bisogna apprendere a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze». I ragazzi da soli non lo sanno fare, per questo hanno bisogno di noi. E allora, cosa aspettiamo?
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