La verità nei conflitti tra censure e propaganda: quando vince la realtà

La notizia è un fatto che si staglia dall’andamento ordinario della realtà. I giornalisti chiamati a raccontarla raramente sono spettatori diretti di quel fatto e devono ricostruirlo affidandosi a testimoni credibili. È un lavoro a rischio di inciampi, non per la malafede dei cronisti come molti credono ma proprio perché l’affidabilità di chi assiste all’evento non è sempre a tenuta stagna e la verifica ha tempi stretti: soprattutto nei quotidiani, la scrittura di un articolo deve avvenire in un arco di poche ore e non di giorni. In un conflitto poi l’attività del reporter è ancora più complicata perché le zone dove avvengono i fatti possono non essere accessibili per ragioni di sicurezza.

E perché i belligeranti hanno tutto l’interesse a controllare l’informazione, attraverso propaganda e censura, per indirizzare il pensiero dell’opinione pubblica. Non a caso una citazione attribuita ad Eschilo, drammaturgo greco vissuto tra il 525 e il 456 avanti Cristo, dice che «la prima vittima della guerra è la verità».

Oggi poi i social hanno amplificato il fenomeno delle cosiddette «fake news», le notizie false. In questi giorni drammatici per il destino dell’Ucraina e dell’Europa, le immagini di un videogioco di conflitti, Arma III, apparivano così reali da essere erroneamente attribuite a quello vero in corso: hanno avuto una grande diffusione su Facebook e sono state riprese inopinatamente da un telegiornale come un combattimento avvenuto nell’ex Repubblica sovietica.

Nei giorni scorsi il presidente russo Vladimir Putin ha siglato una legge, approvata per direttissima dalle due Camere del Parlamento, che prevede condanne fino a 15 anni di carcere per cittadini russi e stranieri che diffondono «informazioni false sulle forze armate». Il termine guerra non può essere usato a proposito di ciò che sta avvenendo in Ucraina, ma si deve parlare di operazione militare, per indorare una pillola amarissima: la devastazione del Paese vicino, l’uccisione di centinaia di civili e la fuga all’estero di 2 milioni di persone. Emittenti mondiali come Bbc, Cbc, Cnn e Bloomberg hanno sospeso il lavoro dei loro giornalisti e collaboratori in Russia per proteggerli dalle nuove sanzioni penali. Anche la Rai ha seguito questa strada. Le autorità hanno poi chiuso l’ultima radio libera di Mosca, Echo, e la tv indipendente Dozhd. Ma siccome viviamo nella globalizzazione e ci sono canali di informazione che viaggiano oltre i confini, sono stati bloccati anche Facebook e Twitter, oltre ad aver ristretto su internet l’accesso ai siti di media indipendenti. Così passa solo la narrazione voluta dal Cremlino: i soldati russi sono in Ucraina in missione umanitaria e subiscono gli attacchi a suon di bombe dell’esercito avversario. Del resto Putin è preoccupato anche dal fronte interno: secondo un centro di ricerche moscovita, il 54% dei suoi connazionali è contro il conflitto, posizione manifestata da migliaia di persone in manifestazioni di protesta in 60 città (già 15mila gli arrestati che rischiano fino a 15 anni di carcere).

C’è anche una propaganda ucraina? Sì, ma meno necessaria. Basta guardare le fotografie delle città devastate, delle lunghe file di chi scappa, di chi ormai abita stabilmente negli scantinati o nella metrò di Kiev per sfuggire ai bombardamenti. Su Facebook invece c’è chi, nella platea trasversale dei nostri putiniani, denuncia la propaganda dei media occidentali, senza specificare in cosa consista e per conto di chi. C’è una differenza di non poco conto però: in Europa e negli Usa è possibile accedere a una pluralità di fonti d’informazione non censurate, dai social ai siti internet specializzati, per chi non si fida del cosiddetto giornalismo meinstream, termine glamour abusato da chi vive nel sospetto ideologico.

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