Le ambiguità inaccettabili del club dei filo Putin

ITALIA. Il club italiano filo Putin in questi anni è passato dalla bizzarria eccentrica al genere di consumo alternativo: minoritario, ma sempre disponibile al supermarket oltranzista.

Un filone a tratti trasversale e a intensità variabile, anche perché nessuno se lo intesta alla luce del sole: sovente lo si desume dal neutralismo fra Ucraina e Russia o, per estensione politica, dall’equidistanza fra Trump e Biden. Gli interessati, certo, smentiscono nettamente: estrema destra extraparlamentare, pezzi salviniani, sedimenti che vanno e vengono tra frammenti grillini. Salvo osservare, quanto al fianco destro, la lunga marcia verso l’Internazionale degli impresentabili (l’ungherese Orban, la francese Marine Le Pen pur in via di correzione, l’ultradestra tedesca), fiancheggiatrice dello zar.

Vale il vecchio trucco: si dice e non si dice, si lascia intendere, si resta nel modulo ambiguità, si insinua il dubbio che è vitale per la democrazia. Il tono è tiepido e si usa un principio dello Stato di diritto per alleviare le responsabilità di chi, quello Stato di diritto, lo calpesta. Un flash, fortunatamente solo così, quello del vicesegretario della Lega che, commentando la morte di Aleksei Navalny, ha invocato il garantismo per Putin, medicato e corretto da una nota del partito che ha espresso «profondo cordoglio» per la scomparsa del principale oppositore dello zar.

Da tempo ci si interroga sulla fascinazione che esercitano gli autocrati del nostro tempo, a cominciare dal capo del Cremlino. Ognuno si approssima ai despoti di turno per i motivi più svariati, in cui però non è difficile individuare la legge fisica degli estremi che si toccano: l’impronta dell’uomo forte, il machismo, il nazionalismo di uno Stato che tutto sorveglia, il disprezzo verso la liberaldemocrazia, un anti-occidentalismo revanscista, l’idea di un’efficienza risolutiva.

Tutto plausibile per un pugno di voti, ma la stessa politica da sola è insufficiente a spiegare il contesto: in fondo dalle nostre parti, quelle europee, assistiamo alla febbre della democrazia. In pochi si sono accorti dell’arrivo di questa deriva, su cui a lungo è stato steso un velo d’indulgenza se non di ipocrisia: alla voce «cronaca minore», effervescenza anticonformista. Negli anni ’90, durante le guerre balcaniche e mentre l’Italia stava con la Nato, c’era chi si schierava con il leader nazionalista serbo Milosevic. La Corea del Nord è parso un Paese stellato in cui – accidenti che gioia – i bambini possono giocare in sicurezza nelle strade. Non c’è stato dittatore che, almeno nel retropensiero, non abbia trovato una qualche comprensione. Del resto i guai della globalizzazione, in quanto americana, si sono rivelati un generoso assist per il sodalizio anti sistema. Ora però la ricreazione è finita con l’ultimo atto di un regime crudele e pure impaurito.

La guerra asimmetrica (armi più disinformazione) del Cremlino gioca sulle ambiguità del ventre molle di parti delle opinioni pubbliche europee. Come ha sentenziato un uomo della nomenclatura, Mosca deve sostenere le forze anti-sistema nel Parlamento europeo perché porteranno alla fine del «globalismo liberale». Oggi la manifestazione bipartisan a Roma per ricordare il sacrificio di Navalny può dire, almeno sul piano dei simboli e delle parole, che questa strategia illiberale non passa. Per un dovere prima di tutto verso noi stessi e il patrimonio costruito dall’Europa democratica.

Perché – ricordando le parole del presidente Mattarella – quel che è successo al campione del dissenso russo ci riporta alla memoria i tempi bui della storia, che speravamo di non dover più rivivere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA