L’economia globale cerca nuova stabilità

IL COMMENTO. Stabilità dei prezzi, stabilità finanziaria e stabilità geopolitica cercansi. È quello che auspichiamo tutti noi cittadini, specialmente quando vestiamo i panni di consumatori, lavoratori e imprenditori. È anche la sfida attorno alla quale si sono arrovellati ministri dell’Economia e banchieri centrali del G7 e del G20 riuniti per tre giorni a Washington come ogni primavera.

D’altronde la fase economica che stiamo attraversando, almeno per come l’hanno descritta gli analisti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, non è rosea: previsioni di crescita così basse, a livello globale, non si vedevano addirittura dal 1990. Finito l’«effetto rimbalzo» successivo alla fase più critica dei lockdown e dei contagi di massa da Covid-19, sono emerse infatti le cicatrici profonde lasciate dalla pandemia. Dalla carenza di mascherine a quella di componenti per i vaccini, passando per la scarsità di microchip, solo per fare alcuni esempi: abbiamo tutti scoperto quanto le catene globali del valore – alla base di un modello organizzativo basato sulla frammentazione del processo produttivo in singole fasi, allocate in imprese diverse che operano spesso in tutto il mondo – possano essere fragili. L’invasione russa dell’Ucraina avviata nel febbraio 2022, con il suo prezzo drammaticamente alto in termini di vite umane e distruzione materiale, è stata soltanto l’ennesima certificazione di tutto ciò.

Proprio un anno fa, nell’aprile del 2022, la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, coniò una formula efficace, utile per spiegare questa nuova tendenza dell’economia mondiale e che ad alcuni sembrò indicare una possibile via d’uscita: «friend-shoring». Il neologismo descrive la propensione che ogni Paese dovrebbe sviluppare ad approfondire i legami produttivi e commerciali con i Paesi «amici», a discapito di quelli «nemici» o comunque politicamente e culturalmente più distanti. Più facile a dirsi che a farsi, in realtà. Lo dimostra da ultimo il caso dell’Inflation Reduction Act, la legislazione voluta dal presidente americano Joe Biden, per potenziare sviluppo e produzione di tecnologie «verdi» a condizione che questi avvengano all’interno dei confini degli Stati Uniti. Il potente mix di sussidi e crediti d’imposta messi in campo da Washington ha spiazzato tanti storici alleati, tra cui noi europei, timorosi di veder penalizzate le nostre aziende rispetto a quelle a stelle e strisce.

Il problema di fondo, a un anno di distanza dalla nascita del termine «friend-shoring», lo ha indicato in questi giorni proprio il Fondo monetario internazionale (Fmi), un’organizzazione non tacciabile di pregiudizio anti-americano. Il Fmi descrive infatti una globalizzazione sempre più «frammentata» per ragioni geopolitiche. «Nell’ultimo decennio – si legge in un rapporto dell’organizzazione – la quota di investimenti diretti esteri tra economie geopoliticamente allineate ha continuato a crescere, più della quota di investimenti fra Paesi che sono maggiormente vicini dal punto di vista geografico, lasciando intendere che le preferenze geopolitiche indirizzano in maniera crescente la dimensione geografica degli stessi investimenti». A questo processo, tuttavia, sono associati dei costi: «Un mondo frammentato sarà probabilmente un mondo più povero – scrive ancora il Fmi –. Si stima che le perdite in termini di produzione globale nel lungo termine siano prossime al 2% del Pil globale». Si potrà decidere, per motivi di sicurezza strategica o di tenuta sociale delle nostre democrazie, di affrontare tali costi. Ma sarebbe irresponsabile ignorarli o non attrezzarsi – anche in termini di riforme domestiche pro crescita – per poterli davvero sostenere.

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