Letta e Meloni, sfida frontale

Draghi c’è e non c’è. Estraneo alla partita politica, comunque resta sullo sfondo. Spesso evocato, il garante dell’Italia euroatlantica e riformista. Ieri ha ricordato che il governo va avanti, perché c’è ancora tanto da fare. «Sarà un autunno complesso», ha ribadito dopo aver già sottolineato questo concetto nella due giorni parlamentare in cui gli fu dato il benservito.

Qualcosa di più di un promemoria per la campagna elettorale, in coincidenza con l’analisi del Fondo monetario internazionale che ha parlato di rischi di recessione a livello globale. Il quadro economico non consente fughe in avanti e depotenzia in partenza slogan in cerca di facili consensi o bonus elettoralistici. Il percorso è in ogni caso obbligato nella griglia dei vincoli europei, a partire dalla messa a terra del Pnrr, fin qui in regola sulla tabella di marcia e sugli obiettivi raggiunti. I motivi dell’autunno difficile li conosciamo, con l’aggravante che questi mesi sono «caldi» per definizione: è così dal 1969 in poi. Vedremo in che modo, in quale misura e con quale taglio saranno trattati nella manciata di settimane prima del voto: c’è una pandemia che potrebbe riservarci ancora brutte sorprese, c’è l’incognita della guerra in Ucraina, s’aggrava il peso dell’inflazione sulla vita degli italiani, specie di quelli a reddito fisso.

La caratteristica di questo momento è data dal convergere in un assolo di crisi epocali, compreso lo spaesamento collettivo, che impatta su un sistema politico evanescente e con il fardello di una pessima legge elettorale. Tutto in un colpo solo. I partiti, spiazzati e mobilitati all’ultimo momento, oltre che sfidati dall’astensionismo, devono costruire coalizioni elettorali con ciò che residua su piazza: mettere insieme quel che già c’è, inventarsi qualcosa di mobilitante.

La questione della governabilità, che si riproporrà, sarà il vulnus successivo. Siamo ancora alle premesse, al rebus delle coalizioni. Il punto è l’attuale legge elettorale, là dove i partiti pagano il prezzo di non averla voluta cambiare, non essere passati a un sistema proporzionale. Le norme in vigore prevedono più di un terzo di collegi uninominali, cosa che dà fastidio un po’ a tutti: i partiti che si mettono insieme devono scegliere 147 candidati comuni alla Camera e 74 al Senato. Questo significa, e lo vediamo in queste ore, che Meloni, Salvini e Berlusconi da una parte, così come Letta, Calenda e quant’altri dall’altra devono discutere e litigare sulla spartizione tra loro di 221 Collegi in cui verranno presentati i candidati comuni delle rispettive coalizioni. Operazione insidiosa, in cui vengono meno antiche amicizie.

Anche perché la geografia politica si sta riformulando e gli equilibri usciti dalle elezioni del 2018, il precedente al quale rivolgersi, disegnano un mondo in frantumi, con qualche maceria e irresponsabilità. Lo stacco di Giorgia Meloni sui suoi alleati-competitori (finora dato dai sondaggi e confermato dalle recenti parziali amministrative) sta cambiando la natura della coalizione, nonostante Berlusconi sia impegnato a dissimulare la trasformazione del polo da centrodestra a destracentro. Prestandosi alla liquidazione di Draghi, il signore di Arcore ha gettato la maschera: da un lato la gerarchia del centrodestra si risolve nella competizione fra Meloni e Salvini con un ruolo gregario di Fi, dall’altro la secessione di alcune figure storiche degli azzurri incide sull’immagine stessa del partito berlusconiano, sottraendogli personaggi moderati e riformisti. La leader di Fratelli d’Italia ha colto la cesura del tempo: la spallata è ora, a inizio giochi. Si capisce così il suo diktat: intesa sul premier, sul nodo cruciale della scelta del condottiero in caso di vittoria. Più tutto il resto: candidati, programmi. Meloni ha capito, ma non c’era bisogno, che il suo avversario non sono i giornali democratici americani che già la stanno attaccando, ma il fuoco amico. Poi, per preoccuparsi, ci sarà tempo e nel caso si dovranno valutare le sue posizioni sull’Europa, sull’identità storica della sua formazione, sul programma economico.

C’è già però un filo conduttore della campagna elettorale: la competizione diretta fra Letta e Meloni. Trasparente, senza veli. «Non ci sarà pareggio, o noi o la Meloni», dice il segretario del Pd, individuando nel suo partito e in Fdi i pivot delle due coalizioni. Uno scontro diretto, senza mediazioni. In chiaro: europeismo e Agenda Draghi contro l’inedito. A decidere saranno gli astensionisti e la galassia informe del centro: la chiamiamo così, pur sapendo che vecchie terminologie non sono applicabili all’Italia 2022. E però quest’area liberaldemocratica o espressione di un «patto repubblicano», con la legge elettorale che c’è, ha un suo potere marginale. Il fatto nuovo è fornito dalle relative aspettative di questa zona di frontiera, modulata sui toni morbidi dell’elettorato, alleabile nel campo largo del Pd. Riaffermata l’esclusione del partito di Conte, l’offerta obbligata dalle regole elettorali s’è trasferita sulla coalizione con i centristi: con Calenda, prima di tutto, e con le varie membra sparse dei senza casa. Un rassemblement lettiano che andrebbe dalla sinistra-sinistra fino agli interpreti italiani di Macron. Mettendo nel conto i mal di pancia della sinistra dem, orfana dei grillini, con una personalità difficile da gestire come Calenda, titolare di una piattaforma percepita come espressione dei ceti produttivi, con Renzi da digerire o meno, con la coppia Di Maio-Sala in itinere, oltre alla diaspora berlusconiana e ai cespugli di varia umanità. Siamo soltanto alla prima posa di un’architettura tutta interna al Palazzo, non nella società: per il resto fantasia e incidenti di percorso non mancheranno.

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