L’orrore di Bucha allunga la guerra

In tutti i drammi, e la guerra in Ucraina non fa eccezione, spunta un attimo di farsa. Ieri, in queste colonne, parlavamo del sostanziale fallimento delle Nazioni Unite nel garantire la pace e la sicurezza tra le nazioni, come peraltro ha detto a chiare lettere lo stesso presidente ucraino Zelensky. Oggi tocca riparlarne, perché la Russia è stata espulsa dagli organismi Onu che si occupano di diritti umani.

Una decisione anche comprensibile se non fosse che quegli stessi organismi sono stati rappresentati, or non è molto e senza scandalo alcuno, persino da diplomatici dell’Arabia Saudita. Ma questo è niente rispetto alla tragedia vera, per esempio alle prove sempre più consistenti che si accumulano ai danni della Russia per i massacri di Bucha e forse anche di altre località come Borodyanka. Si vorrebbe non crederci, perché in una guerra già insensata queste stragi così ostentate travolgono qualunque misura, anche della violenza bellica. Eppure Bucha peserà non poco sulla prosecuzione del conflitto. Le immagini dei civili torturati e uccisi renderanno ancora più combattivi gli ucraini, che non possono più tollerare di ritirarsi e lasciare donne, bambini e anziani alla mercé dei mercenari della Wagner o della guardia del presidente ceceno Kadyrov. Ma renderà ancora più tenace la volontà del Cremlino. Prove o non prove (e i russi stanno replicando alle accuse in maniera molto debole), Vladimir Putin porterà con sé la responsabilità politica degli orrori, fardello che può alleggerire, ma non annullare, solo con una vittoria, o con qualcosa che possa essere speso come tale almeno in patria. In conclusione, dopo Bucha la prospettiva di un accordo tra Russia e Ucraina si allontana e quella di una guerra lunga, di logoramento, si fa purtroppo più concreta.

L’Europa discute di nuove sanzioni ma, soprattutto, si palleggia in mano la sanzione delle sanzioni: rinunciare all’importazione di gas, petrolio, carbone e combustibile nucleare dalla Russia. È quanto ha chiesto proprio ieri il Parlamento Europeo approvando una risoluzione che, come tutte quelle sue, è esortativa ma non vincolante per la Commissione Europea. È facile a dirsi, appunto, ma complicatissimo a farsi. Per due ragioni. La prima è che, a dispetto della retorica oggi imperante, il commercio di risorse energetiche con la Russia è stato per decenni dettato non dalla complicità con Putin o da chissà quale complotto, ma dalla pura e semplice reciproca convenienza. Ci guadagnava la Russia e ci guadagnavano la Ue e tutti i Paesi importatori, perché il gas russo fluiva, e tuttora fluisce, sicuro e a buon prezzo. E questo ha voluto dire bilanci meno onerosi per le aziende e bollette meno salate per le famiglie. Lo sa bene la Germania, che da sola vale un terzo circa dei 155 miliardi di metri cubi di gas importati ogni anno dall’Europa. Ma lo sanno bene anche tutti gli altri Paesi. Compresa l’intransigente Polonia, che in questi giorni riacquista dalla Germania, a prezzo maggiorato, il gas che la Germania aveva prima comprato dalla Russia.

La seconda ragione è che, sul tema del gas, nella sospirata unità della Ue potrebbero aprirsi crepe insidiose. Difficilmente l’Ungheria si priverebbe del gas russo, anche per ragioni geopolitiche. Ma grossi problemi avrebbero, di fronte a una simile decisione, anche Paesi come l’Austria o, appunto, la Germania. L’Italia fa finta di nulla, ma dove andrebbe a prendere, in tempi stretti, cioè prima del prossimo inverno, quel 46% del consumo totale di gas (quota cresciuta del 20% negli ultimi otto anni) ora coperto dalla Russia? Altro che «o pace o condizionatori», come ha detto il premier Draghi in una delle sue rare espressioni poco felici.

C’è poi una terza ragione, di cui per ora solo si mormora ma che sta seduta come un convitato di pietra ai tavoli dei potenti. La prospettiva di una brutale recessione nei Paesi poveri e in via di sviluppo dove le spese per il cibo (e qui già colpiscono duro le turbolenze sul Mar Nero e sui suoi porti) e per il riscaldamento e i carburanti costituiscono le voci decisive del bilancio delle famiglie e degli Stati. In Medio Oriente già si raziona. L’ultima volta in cui successe qualcosa di simile partirono le Primavere arabe e una stagione di turbolenze, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria allo Yemen, che pochi vorrebbero rivedere.

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