Medioriente, tentativi Usa di calmare gli animi

MONDO. Per anni abbiamo sentito lamentare un presunto disimpegno degli Stati Uniti dal Medio Oriente.

Idea discutibile, se consideriamo che da lungo tempo sono presenti nella regione circa 30mila soldati americani sparsi nelle basi di Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iraq e persino Siria, dove occupano la porzione di territorio siriano più ricca di petrolio, che furono le bombe Usa a stroncare lo Stato islamico e che il sostegno a Israele non è mai mancato. Ma tant’è, si aveva la sensazione che ai diversi inquilini della Casa Bianca interessassero di più altri fronti e altri avversari. La Russia e la Cina, per esempio.

Dalla notte dell’attacco iraniano a Israele questa tesi è comunque diventata difficile da sostenere. Più passa il tempo e si susseguono le prese di posizione dei leader, più cresce la sensazione che dietro la guerra-non guerra tra l’Iran e lo Stato ebraico, come peraltro nelle pieghe della più ampia crisi tra Israele e i palestinesi di Gaza, ci sia un tentativo di regia degli Stati Uniti. I fatti, del resto, sono sotto gli occhi di tutti.

L’attacco iraniano era largamente preventivato, tanto che le fonti Usa l’avevano annunciato con puntualità, nei tempi e nei modi. D’altra parte, la strategia scelta da Teheran, con ordigni che impiegavano ore ad avvicinare il bersaglio, consentiva alle difese antiaeree israeliane di prepararsi con comodo ed eliminarli, come infatti è poi puntualmente avvenuto. Sull’altro lato della barricata, il premier israeliano Netanyahu ha ritirato le truppe dal Sud della Striscia di Gaza in seguito ai rimbrotti di Joe Biden.

Ma soprattutto si è visto come gli Usa, nel caso dell’operazione militare lanciata dagli iraniani, siano stati in grado di muovere una coalizione militare proporzionata alle dimensioni della crisi ma efficacissima: i caccia americani, inglesi e francesi sono volati a intercettare droni e missili, la Giordania ha collaborato, e non solo offrendo il proprio spazio aereo. Risultato: gran parte dei droni e dei missili sono stati distrutti ancor prima che raggiungessero il cielo di Israele. Come i generali iraniani, peraltro, sapevano che sarebbe successo.

È evidente, quindi, che gli Stati Uniti non solo sono tornati in Medio Oriente (ammesso sempre che se ne fossero andati) ma l’hanno fatto con la più chiara intenzione di mettere mano agli eventi, tentando una funzione moderatrice anche a costo di scombinare qualche tradizione politica. Lo si è visto con la crisi di Gaza, in cui Biden ha tolto a Netanyahu la garanzia totale che da sempre la Casa Bianca forniva ai Governi di Israele. Gli Usa vogliono continuare a difendere Israele ma non al prezzo di farsi accomunare alla strategia irrazionale, inconcludente e crudele del suo attuale primo ministro. E non vogliono che le stragi di Hamas e dell’esercito israeliano servano da scusa all’Iran per accendere un conflitto più ampio che, peraltro, le forze armate iraniane non potrebbero reggere.

In più, la Casa Bianca sembra conservare quello sguardo ampio che, com’è logico, manca ai diretti contendenti. Il Libano è una costruzione fragile (per il complicato assetto istituzionale e per l’acutissima crisi economica) che può andare in pezzi in qualunque momento. Il Mar Rosso è uno snodo troppo importante per i commerci e le comunicazioni internazionali e non può essere abbandonato alle incursioni degli Houthi. La guerra tra Russia e Ucraina è lungi dall’essere conclusa. Calmare gli animi, o almeno provarci, è oggi l’unica politica degna di tal nome.

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