Migranti, realtà e inutili slogan

L’8 agosto 1991 la nave «Vlora» sbarcava su una banchina del porto di Bari 40mila albanesi, un numero impressionante. Dopo 32 anni da quel fatto epocale, gli italiani che hanno deciso di trascorrere quest’anno le vacanze in Albania sono 500mila, contribuendo a incrementare del 35% da gennaio il turismo nel Paese balcanico.

Cos’è successo nel frattempo perché uno Stato che era a forte emigrazione attragga ora non solo vacanzieri ma nostri connazionali per motivi di lavoro, da chi avvia attività commerciali o industriali a dipendenti, complessivamente almeno 2.251 persone? La risposta è semplice: l’Albania si è stabilizzata politicamente ed è cresciuta economicamente. Il canale d’Otranto non è più puntellato di imbarcazioni di migranti che cercano di raggiungere l’Italia dal Paese delle due aquile. Un cambiamento che dovrebbe ricordarci un’evidenza: l’immigrazione dipende più da fattori esterni agli Stati di approdo che interni.

In questi giorni sulle nostre coste gli sbarchi hanno toccato quota 100mila persone da gennaio, oltre il doppio rispetto allo stesso arco di tempo del 2022. Ciò è avvenuto nonostante a Roma sia insediato un governo di centrodestra (o destra-destra). Il numero record di arrivi non è nella responsabilità totale del governo in carica che paga semmai lo scotto a una campagna elettorale illusoria all’insegna dello slogan «immigrazione zero» e con proposte impraticabili come il blocco navale. La realtà ha dimostrato all’esecutivo Meloni che la gestione dell’immigrazione è difficile e complessa chiamando in causa appunto fattori soprattutto esterni. Nei primi mesi il governo ha perso tempo innescando un conflitto con le navi umanitarie delle ong, accusate di rappresentare in mare un fattore di attrazione per le partenze, il cosiddetto «pull factor», smentito da ricerche rigorose e dall’evidenza che gli sbarchi sono proseguiti anche quando nel Mediterraneo operava una sola imbarcazione delle organizzazioni non governative. È stato approvato il decreto Cutro che vieta alle stesse imbarcazioni soccorsi multipli salvo poi chiedere, come è avvenuto in questi giorni, aiuto alle navi umanitarie, in deroga al decreto, per salvataggi multipli di naufraghi (oltre 2mila le vittime da gennaio).

Il governo Meloni a metà luglio ha poi siglato insieme alla Ue un accordo con la Tunisia, sul modello di quello fallimentare con la Libia, per fermare le partenze in netta crescita dal Paese del Maghreb, un pacchetto complessivo di 255 milioni di euro a sostegno del disastrato bilancio dello Stato nordafricano e per la gestione dei flussi migratori. Ma dopo la firma del patto le partenze dalle coste tunisine registrano un’impennata: 24mila nell’ultimo mese a fronte di 60mila dall’inizio dell’anno, quasi il quadruplo rispetto al 2022. Effetto anche della violenta «caccia» agli africani subsahariani, ritenuti dal presidente tunisino Kais Saied portatori di criminalità. Quello stesso Saied con il quale è stato siglato il patto e che ordina la deportazione degli ospiti indesiderati nel deserto libico: almeno 600 sono morti nell’ultimo mese, abbandonati senza acqua e cibo. Nei memorandum firmati con Tripoli e Tunisi perché non è stata imposta come clausola la tutela dei diritti umani dei migranti? La civiltà europea, o ciò che ne resta, non dovrebbe avere a cuore quella tutela?

È stata invece positiva la promozione da parte di Palazzo Chigi della conferenza di Roma con i rappresentanti degli Stati della sponda Sud del Mediterraneo allargato, del Medio Oriente e del Golfo, dei Paesi Ue di primo approdo e dei vertici delle istituzioni europee. L’obiettivo era dare corpo al cosiddetto «Piano Mattei» per sostenere l’economia degli Stati di partenza dei migranti. Bisogna insistere su questa strada, coinvolgendo le istituzioni multilaterali come l’Onu, le sue agenzie e l’Unione africana. Pensare di fermare le migrazioni sulle coste degli Stati del Maghreb è illusorio, anche per le collusioni tra le Guardie costiere locali e i trafficanti, e per le forti motivazioni a fuggire da guerre, violenze e fame da parte degli emigranti. Per smantellare le vie illegali bisognerebbe poi incentivare quelle legali: canali umanitari per chi scappa da conflitti e persecuzioni; decreti flussi più ampi (in Italia quello recente, triennale, prevede 450mila ingressi per lavoro a fronte di 800mila domande da parte di aziende e di privati).

Ma il multilateralismo andrebbe applicato anche nella gestione dell’ospitalità: il governo sta cercando giacigli per 50mila migranti (6mila solo in Lombardia) sbarcati nelle ultime settimane. Dopo aver smantellato il modello dell’accoglienza diffusa nei Comuni, che aveva dato buoni risultati, ora ricorre al metodo impositivo senza garantire risorse agli enti locali. Non è la via più saggia.

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