Politica estera, fronti allargati

MONDO. Giorgia Meloni può ritenersi soddisfatta dell’incontro con Biden per via di quella «relazione speciale» che un anno fa non era scontata fra il presidente democratico e la premier italiana che allora strizzava l’occhio all’America di Trump.

In 9 mesi a Palazzo Chigi la leader della destra italiana e degli euroconservatori ha fatto di tutto per accreditarsi quale governante responsabile nelle sedi che contano, puntando sulla politica estera come ribalta preferita oltre che necessaria. E il faccia a faccia alla Casa Bianca chiude, almeno simbolicamente, la prima fase del governo Meloni. Gli effetti del conflitto provocato da Putin hanno ribaltato scenari e prospettive, mentre i colloqui a Washington hanno riaffermato la cifra fondamentale di questo esecutivo: l’allineamento senza sfumature agli Stati Uniti, in particolare sulla guerra in Ucraina, una sintonia se vogliamo anche personalizzata, a differenza invece delle relazioni problematiche con l’Europa e con partner storici come la Francia.

La lealtà atlantica è uno dei pochi terreni dove Meloni non ha avuto tentennamenti. Per la destra italiana, e per l’Europa dell’Est con la Polonia ultraconservatrice in testa, gli Usa sono il punto di riferimento strategico più ancora di quanto lo sia l’Unione europea, specie in una cornice geopolitica in cui, piaccia o meno, Ue e Nato si trovano sovrapposte e dove è chiaro chi detta l’agenda. Se in America la premier può azionare la leva pro Ucraina per attenuare perplessità e scetticismi che in questa circostanza si sono tramutati in riconoscimenti, le noti dolenti per lei giungono dal puntuale rispetto dei vincoli europei in economia (Pnrr e Mes) e dal quadro interno. Un iperattivismo di corsa, quello della premier sulla scena internazionale, fatto di equilibrismi trasversali, pragmatismo, non privo di quel tocco di spregiudicatezza che le consente di distanziarsi dalla Giorgia di ieri e di correggere la rotta in nome della convenienza. Lo si è notato quando ha giocato di sponda con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che la segue e la incoraggia nella campagna d’Africa, smentendo così il racconto sovranista, visto che i problemi non hanno soluzioni nazionali ma sovranazionali.

Meloni l’americana in questo periodo ha incassato un successo e subìto una sconfitta. Il primo riguarda il rilascio dello studente Patrick Zaki, vicenda che indirettamente rilegittima il peso politico dell’Italia nel Mediterraneo. Il secondo è il flop della destra postfranchista in Spagna: per Meloni costituisce uno smacco personale e, insieme, ridimensiona l’idea della spallata conservatrice nell’Ue. In attesa dello sganciamento morbido dall’abbraccio cinese (l’uscita dall’infrastruttura della Via della Seta, il memorandum firmato dal governo gialloverde di Conte nel 2019), a credito della diplomazia italiana c’è il focus sul Mediterraneo, il nostro cortile di casa: la presidente del Consiglio più volte, e lo ha fatto anche con Biden, ha sottolineato l’importanza che Europa e Usa tornino protagonisti in Africa attraverso accordi «paritari» e non predatori di partenariato, anche per non lasciare campo libero all’espansionismo russo e cinese. Africa non è solo migrazione e non si esaurisce nella deriva autoritaria della Tunisia a rischio default, soccorsa da Italia ed Europa, ma è parte integrante dell’arco di crisi che dai Balcani inquieti arriva fino all’Afghanistan abbandonato dagli americani, passando dal trauma ucraino e dall’enigma di Mosca. Un gigante demografico, che paga errori propri ed altrui, con il quale è necessario dialogare in modo rispettoso.

Il problema strategico della sponda Sud è che, fra relativo disimpegno dell’America orientata alla centralità dell’Indo Pacifico e fragilità dei regimi, il pallino è passato nelle mani di Cina, Russia e Turchia. Fra Stati semi falliti come la Libia, ritorno dei militari golpisti nel Sahel, insediamento dei gruppi islamisti e dei mercenari della Wagner e arretramento militare della Francia da una sua zona d’influenza. Il risultato è che democrazie non se ne vedono e la scelta, nel nostro estero vicino, è fra regimi illiberali e caos. Ponendo seri problemi, non ultimi quelli morali, là dove - come sottolinea «Avvenire» - la politica dello scambio tra aiuto allo sviluppo e controllo delle partenze dei migranti, se persegue il contrasto immediato degli arrivi, rischia di finanziare misure repressive, anche terribili, come in Libia, Turchia, Tunisia. La Conferenza internazionale di questi giorni sulle migrazioni, svoltasi a Roma, prova a imbastire un progetto per mettere insieme sicurezza dell’Europa, flussi umanitari regolati e sviluppo, in un passaggio dove è in movimento anche il Grande Sud Globale che reclama legittimamente un posto a tavola e che guarda alle parti in conflitto in Ucraina con occhi assai diversi dai nostri, non identificandosi nel contrasto democrazie-autoritarismi. Il dialogo-confronto dovrebbe proporre un nuovo formato che tenga conto dei differenti interessi in gioco, nel senso che non si può ricercare ciò che preme a italiani ed europei senza considerare i bisogni e le attese dei nostri dirimpettai. Il Piano Mattei suona bene come nome, vedremo i contenuti. Questo rappresenta una delle sfide per il G7 a guida italiana del prossimo anno: un incrocio ad alta tensione, fra elezioni europee ed americane.

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