Polveriera Sahel: l’Italia
ora rischia la solitudine

Il Sahel è una regione dell’Africa subsahariana poco conosciuta dalle opinioni pubbliche occidentali, eppure strategica soprattutto per l’Europa. Una striscia lunga 8.500 chilometri che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea). Un’area fortemente instabile, infestata da movimenti jihadisti affiliati ad Al Qaeda ed allo Stato islamico, cuore nevralgico della tratta dei migranti diretti in Libia e del commercio di materie prime preziose (uranio, oro, litio, rame e ferro). A infragilire ulteriormente la situazione, i recenti golpe in Burkina Faso e Sudan, sulla scia di quanto accaduto nel 2020 e nel 2021 in Mali. Va poi registrata l’eccessiva militarizzazione della regione avvenuta nell’ultimo decennio, nell’ambito di politiche di contrasto alle insorgenze islamiste promosse dai partner europei degli Stati saheliani, invece di modificare in profondità le pratiche di governo predatorie e repressive degli Stati locali. E poi le persone emigrano...

La Francia, ex potenza coloniale, da 10 anni è presente con un contingente militare ma non è riuscita a risolvere la questione della presenza jihadista, che si è invece rafforzata. Sulla linea del controterrorismo c’è anche l’Italia, tra i Paesi europei che più ha aumentato negli ultimi 3-4 anni il proprio impegno nella regione, in termini di risorse diplomatiche, economiche e militari. Ha aperto o sta istituendo ambasciate in Niger, Mali, Ciad, e Burkina Faso. Dal 2018 ha lanciato una missione di cooperazione militare in Niger: il nostro contingente, il secondo per importanza dopo quello francese che però è in ritirata, sta terminando in questi giorni il proprio dispiegamento in Mali, nella cornice della «Task Force Takuba», con altri 13 eserciti europei. Ma gli altri Stati del vecchio continente si stanno sfilando dall’impegno, per via di contrasti con il governo golpista del Mali. Cosa farà ora l’Italia? Il rischio è di ritrovarsi da sola con il cerino in mano. E che cerino.

L’idea della presenza Ue nell’area nasceva da un pensiero: invece dell’impegno militare in Afghanistan, occupiamoci di ciò che succede nel Sahel e che ci riguarda da vicino perché attraverso il corridoio africano i rischi si spostano verso di noi. Il governo Draghi nel 2021 ha mandato militari specializzati e sei elicotteri. Ma nel frattempo gli altri contingenti hanno cominciato a lasciare la regione e la giunta golpista maliana ha spalancato le porte a 400 mercenari russi della compagnia privata «Wagner», che si muovono per ordine del Cremlino.

Il 14 gennaio la Svezia ha annunciato il ritiro dei suoi 150 soldati della missione Takuba e i 250 della «Minusma» dell’Onu. Il 3 febbraio la Danimarca ha dichiarato che rimpatrierà i suoi 100 uomini, arrivati soltanto da due settimane. Quattro giorni fa l’ambasciatore francese è stato espulso perché ha protestato contro il trattamento riservato ai soldati danesi. Martedì scorso la Norvegia ha annunciato di avere annullato l’invio di militari in Mali, vista la situazione. È un effetto domino. La ministra tedesca degli Esteri, Annalena Baerbock, sta pensando di riportare a casa le truppe impegnate nello stesso Stato africano.

Un fuggi fuggi che ripropone l’attualità di un esercito europeo. Sei mesi dopo il ritiro dall’Afghanistan (dove nel frattempo la situazione politica e sociale si aggrava di giorno in giorno a vantaggio dello Stato islamico) anche la missione di sicurezza nel Sahel è in crisi. Non c’è solo la Russia ad aver messo gli occhi sull’imponente area, ma pure la Turchia: i due Paesi si sono radicati in Libia, usata come base per infiltrarsi a sud a caccia di materie prime. Quella Libia dove non è stato nemmeno possibile tenere le prime elezioni libere e che ci riguarda molto da vicino.

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