Quei missili un messaggio agli Usa
e all’Europa

Come spesso è successo in queste settimane, quella di ieri è stata, per l’Ucraina e per il mondo, una giornata di totale schizofrenia. Di incredibile distanza tra gli eventi sul campo di battaglia e tutti quelli altrove. Dove si combatte e si muore, il fatto saliente è stato il bombardamento russo sulla base militare ucraina di Yaroviv, situata nei pressi di L’viv, la città che è diventata un grande centro di smistamento dei profughi ucraini, a 35 chilometri dal confine con la Polonia. Due le considerazioni fondamentali.

La prima è che con questo lancio di missili la Russia ha segnalato di non essere affatto disposta a cedere e, anzi, di poter arrivare ancora più lontano con i colpi e le incursioni. Nelle intenzioni del Cremlino, insomma, nessuno in Ucraina deve sentirsi al sicuro rispetto a una «operazione militare» (questa la dizione ufficiale in Russia) che sarà lenta e macchinosa, come si dice da noi, ma che intanto non conosce sosta.

E poi, seconda considerazione, i missili sulla base di Yaroviv sono un chiaro messaggio agli Usa e all’Europa. Gli aiuti all’Ucraina, i rifornimenti di armi… Tutto si muove su un crinale sottile, tra la preoccupazione occidentale di non scatenare un conflitto ancor più largo e gli ultimatum di Vladimir Putin e dei suoi, pronti a colpire i convogli diretti a Kiev, considerati un gesto ostile, se non un atto di guerra. Yaroviv era un bersaglio emblematico: il nome quasi beffardo di Centro per il peacekeeping e la sicurezza mimetizzava, con ogni probabilità, una base per gli istruttori militari stranieri (americani, inglesi, polacchi) chiamati a preparare i reparti ucraini che poi venivano mandati a Est, verso il Donbass. Si parla di almeno 35 vittime ma una coltre di silenzio è calata sulla loro identità. Nessuna rivendicazione orgogliosa, nessuna denuncia di scuole oppure ospedali colpiti. E mentre si cercava di saperne di più, Mariupol’ soffocava in un cappio sempre più stretto, Khar’kiv subiva colpi sempre più pesanti, Dnipro entrava nel mirino delle artiglierie russe.

L’altra faccia della medaglia: le cosiddette trattative, l’incrocio poco decifrabile tra chi ha interesse sincero per la pace e chi cerca di profittare politicamente di questa crisi. Putin dice che gli ucraini sembrano più ragionevoli, i ministri di Zelensky che i russi hanno cambiato tono. I tre incontri delle delegazioni in Bielorussia, quello in Turchia dei due ministri degli Esteri, le infinite consultazioni a distanza tra i due servizi diplomatici, finora hanno prodotto molte parole e nessun fatto. Aleggia l’ipotesi di un incontro tra Putin e Zelensky a Gerusalemme, con la mediazione del premier israeliano Naftali Bennett: suggestivo, di cosa potrebbero parlare, oggi, i due leader?

Più concreto, oggi, l’incontro a Roma tra Jake Sullivan, consigliere del presidente Biden per la Sicurezza nazionale, e Yang Jechi, membro dell’ufficio politico del Partito comunista cinese e consigliere di Stato. È stato combinato d’urgenza e può aprire prospettive inattese. Gli Usa vogliono che la Cina smetta di fare da mediatore e, intanto, da compratore di gas e petrolio russi, incassi che sostengono il Cremlino. È chiaro da sempre che la solidarietà a Mosca di Pechino non è totale. Le relazioni commerciali tra i due Paesi battono di mese in mese ogni record. Ma la Cina ha anche forti interessi in Ucraina, e comunque anche per il colosso asiatico sarebbe problematico compromettere i rapporti politici ed economici con l’intero Occidente per salvare quelli con la sola Russia.

Ma che cosa potrà chiedere, in cambio, l’astuto Xi Jinping? E che cosa potranno semmai concedere gli Usa a quello che considerano il vero rivale per la supremazia globale? Sembrano invece da dismettere le solite rivelazioni di origine Usa, in base alle quali la Russia avrebbe chiesto assistenza militare alla Cina. Coinvolgimento che i dirigenti cinesi non accetterebbero mai. Un conto è non sanzionare la Russia, comprare gas e petrolio e vedere tecnologia. Ben altro mettere le mani in una guerra sporca e insensata come quella in Ucraina. E poi non sembra che ai russi manchino le armi o la volontà di usarle.

In Russia, intanto, la repressione del dissenso procede senza sosta. Altre centinaia di arresti ieri, nelle manifestazioni ormai inevitabili della domenica. E migliaia di processi in partenza, a Mosca e a San Pietroburgo, per gli arrestati delle scorse settimane. Quanto resisterà la coscienza civica della borghesia illuminata e cosmopolita delle grandi città russe?

© RIPRODUZIONE RISERVATA