Quella distanza dal paese reale

Iniziata male, la crisi di governo sta per finire peggio. Un giorno tristemente noto, da ricordare fra i più negativi della storia repubblicana recente: il discrimine passa tra responsabili e irresponsabili, il cui costo è sulla pelle degli italiani. Un passaggio caotico e drammatico, un dibattito modesto e rassegnato, che segna la frattura tra Palazzo e Paese reale.

Grillini di Conte e centrodestra di governo (Lega, Forza Italia) portano il peso di aver sacrificato un uomo come Draghi e un governo di quasi unità nazionale che aveva una certa idea positiva di un’Italia resiliente: riformarla con la pioggia di euro dell’Europa nel pieno di una tempesta perfetta, equilibrando compatibilità economica e giustizia sociale. Una giornata definita in tanti modi, ma ugualmente riconducibile a un disastro: il giorno più lungo, della follia e dello spappolamento, nel teatro dell’assurdo e del surreale. Non ricordiamo un suicidio politico perseguito con così tanto zelo e ambiguità elevata a condotta di tribù, al quale peraltro non si riesce a dare un «perché» motivato. Perché, si chiede la maggioranza degli italiani, questo accanimento terapeutico? I numeri esigui di ieri al Senato parlano di una sfiducia politica al di là della fiducia aritmetica (95 sì): un’alchimia quella scelta dai guastatori (usciti dall’Aula o rimasti presenti senza votare per non far mancare il numero legale), senza neppure il coraggio di mettere la faccia su una spaccatura netta.

Anche Salvini non s’è intestato lo strappo, lasciando l’intervento in Senato a uno dei suoi. Draghi annuncia oggi alla Camera l’intenzione di presentare le dimissioni al Quirinale e si rafforza così l’ipotesi di elezioni anticipate presumibilmente il 2 ottobre. Un tempo breve per una data inedita: i mesi del tutti contro tutti. In gioco, ai futuri inquilini di Palazzo Chigi, la legge di bilancio e gli ulteriori adempimenti del Pnrr. Più tutto il resto che già c’è e che potrebbe piombarci addosso, a cominciare dalle decisioni di oggi della Bce (rialzo dei tassi e scudo anti spread) e con le reazioni dei mercati. Mentre sul piano geopolitico Putin ringrazia per il regalo, peraltro da parte di quei partiti che sono stati i più «comprensivi» verso lo zar.

Non stava scritto che questo mercoledì 20 luglio dovesse concludersi con una disfatta del buonsenso, ma è stato l’epilogo di due «convergenze parallele», chiamiamole così, in campo da mesi in nome della conquista di un pugno di voti: la reazione nostalgica della prima ora allo svuotamento del partito di Conte, letteralmente allo sbando fra scissione di Di Maio e quelle possibili prossime, l’ossessione di Salvini che ha visto crescere la Meloni a sue spese. I due, con un piede fuori e uno dentro, sono stati incapaci di compiere una scelta strategica chiara, scaricando su Draghi i propri limiti. Salvini lo ha fatto sprecando l’opportunità di essere parte della ricostruzione del Paese, nonostante il cordone sanitario della Lega governista e del territorio e nonostante l’ex armata padana rappresenti una platea di interessi produttivi, specie al Nord, che anche in questi giorni s’è schierata per la continuità dell’esecutivo Draghi. Il pasticciaccio è del capo grillino, la scelta decisiva l’ha fatta però Salvini insieme con Berlusconi, il cui status di moderato ed europeista non ha mai convinto sino in fondo. Nel quadro di un tatticismo deteriore, tutto nasce da Conte che ha scosso l’albero in maniera stramba (non fiducia senza ritirare i ministri), lasciando a Salvini la raccolta dei frutti. Il cambio di fase in effetti è avvenuto l’altro ieri quando le chiavi per la permanenza di Draghi sono passate in mano allo stesso centrodestra alla ricerca della legittimazione dello strappo, di un incidente qualsiasi, moltiplicando i paletti: prima le critiche ai ministri Speranza e Lamorgese, poi il comizio elettorale sull’immigrazione di ieri in Senato del rappresentante leghista Candiani.

Il Draghi politico era chiamato a mantenere un equilibrio nei rapporti di forza della maggioranza, fra Conte che voleva aperture e Salvini che alzava la posta. L’opzione del voto di fiducia era una scelta trasparente in vista di un nuovo patto di coalizione: io posso andare avanti, ma solo se siete d’accordo. Un modo per stanare chi intendeva sfilarsi. Non sappiamo fino a che punto sia stata felice l’idea di assegnare a un nome formalmente del centrosinistra(Pier Ferdinando Casini, a lungo nel centrodestra, ma in Senato eletto nel Pd) la mozione del governo, comunque il premier è stato chiaro sull’azione di rilancio dell’esecutivo. E pure su chi ha navigato contro: rilievi piuttosto aspri nei confronti della Lega (balneari e tassisti) nella comunicazione al mattino, affondo contro i grillini (Superbonus) nella replica. Quella che doveva essere una riflessione autocritica dei destinatari, s’è tramutata in una crisi di nervi, in un liberi tutti.

Il fatto nuovo è il compattamento di Forza Italia (a parte lo scontro fra la ministra Gelmini e la Ronzulli) e Lega a trazione destra-destra: non depone a loro favore. Il Pd, con il naufragio del «campo largo» di Letta, esce sconfitto: le contorsioni di Conte danno ragione a quei dem che lo ritengono un alleato più da perdere che da trovare. Ciò che conta in peggio, purtroppo, è che questa crisi sbagliata sia sentita contro il comune sentire della società, ferendo le tante sofferenze sociali degli italiani: incapace, nella sua versione politica, di uscire dalla miseria della propria bottega, sprecando le energie migliori e quelle opportunità che non si ripresentano una seconda volta.

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