Quella voce stonata sulle elezioni non libere

MONDO. «Quando un popolo vota ha sempre ragione», dichiara pubblicamente il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, a proposito del plebiscito che ha confermato lo zar Vladimir Putin al potere. Forse ha scelto la nazione sbagliata per fare esempi di democrazia.

Certo, il suo giudizio entra nello stesso solco degli osservatori internazionali di Zambia, Nigeria e Centrafrica, Paesi del Terzo e del Quarto Mondo, forse un po’ addomesticati dalle tonnellate di grano regalato da Mosca. Ma c’è qualche ulteriore dettaglio che spinge a una considerazione diversa.

Cominciamo con il dire che plebiscito non depone quasi mai a favore di una democrazia, soprattutto quando la percentuale (87,9 per cento, 12 punti in più di sei anni fa) è considerata «bulgara», ovvero più simile a una farsa che a una libera elezione e rimanda al più fedele alleato dell’Unione Sovietica prima della caduta del Muro, quando a Sofia il dibattito era inesistente e le elezioni erano, appunto, plebisciti. Un vero democratico dovrebbe sentire sempre puzza di bruciato dietro un’approvazione generale: la storia insegna che c’è sotto qualcosa. In questo caso c’è stato di tutto, a partire dai finti avversari politici caricati a salve, praticamente inesistenti, ologrammi utili solo a giustificare la pantomima elettorale con qualche percentuale infima. Certo, la stampa di regime parla di un «risultato colossale» per Putin, ma di quale risultato si tratta? Erano davvero liberi di votare i cittadini russi? Dov’erano i veri oppositori?

Per il premier polacco Tusk «il voto si è svolto in un contesto di dura repressione». I giornali dell’opposizione sono inesistenti, i corrispondenti esteri sono sgraditi, pubblicare notizie ostili al regime costa anni e anni di galera. Nei soli tre giorni di queste «libere elezioni» - su cui pesa come un macigno la feroce morte del principale oppositore Navalny - ci sono stati oltre cento arresti. Da Downing Street, il premier Sunak ha detto che «la Russia dimostra di non essere interessata a trovare una via verso la pace e la democrazia». Per Leonid Volkov, braccio destro di Navalny, brutalmente pestato in Lituania, «le percentuali ricavate da Putin non hanno la minima relazione con la realtà».

Vi sono poi le modalità del voto, con quelle urne stranamente trasparenti, fatte per rimanere sotto osservazione, e il voto elettronico che si sa facilita la manipolazione. I media indipendenti internazionali hanno postato video di persone letteralmente accompagnate al seggio. Centinaia di schede sono state compilate in modo identico.

Il Cremlino ha rifiutato ai seggi osservatori internazionali dell’Osce/Odhir, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani. Anche dalla Casa Bianca è arrivato un commento sintetico, ma completo: le elezioni non sono state né libere, né giuste. E in casa nostra?

Bastano le parole dell’alleato di Salvini al governo, il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Il titolare della Farnesina ha ribadito che «il voto in Russia è stato segnato dalla violenza» e la violenza, da che mondo è mondo, è nemica della democrazia. Tajani ha poi aggiunto che «le elezioni sono state caratterizzate da pressioni forti e anche violente». Navalny, ha aggiunto, «è stato escluso da queste elezioni con un omicidio, abbiamo visto le immagini dei soldati nelle urne, non mi sembra che sia un’elezione che rispetta i criteri che rispettiamo noi». Dunque resta la domanda di fondo: perché? Perché il leader di uno dei tre partiti di governo esprime un giudizio del genere, così netto, così stonato, di fronte a elezioni palesemente viziate, utili solo a rafforzare chi di fatto è già uno zar capace di adoperare metodi staliniani, deciso a regnare almeno fino al 2030? Perché?

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