Sì alla riforma del Csm
L’effetto Mattarella
e la giustizia giusta

È l’effetto Mattarella. Il 3 febbraio scorso, nel discorso al Parlamento dopo aver giurato per il secondo mandato, il presidente della Repubblica aveva rimarcato come fosse «indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della magistratura (Csm, ndr) possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’ordine giudiziario».

Le derive correntizie e carrieriste all’interno del Csm, emerse negli anni scorsi, contrastano con questo dettato. E ieri il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma che ora dovrà passare al vaglio del Parlamento. Prevede che i magistrati che hanno ricoperto cariche elettive, di qualunque tipo, o incarichi di governo (nazionale, regionale o locale) al termine del mandato non potranno più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. Quelli ordinari, amministrativi, contabili e militari che hanno svolto funzioni apicali nei ministeri o incarichi di governo non elettivi, per tre anni non potranno rivestire la toga. La stessa disciplina si applicherà ai magistrati che si sono candidati in politica ma non sono stati eletti.

La composizione del plenum del Csm è di 30 membri (20 togati e 10 laici). Il sistema elettorale sarà misto (le toghe volevano il proporzionale puro), basato su collegi binominali, che eleggono cioè ciascuno due componenti. È prevista anche una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale. Ma soprattutto non ci saranno liste: solo candidature individuali. La riforma ha ottenuto il consenso dei partiti della larga maggioranza, nonostante obiezioni poi superate.

Ma il Capo dello Stato lanciò anche un altro appello al Parlamento, per il recupero di «un profondo rigore. I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone». Superano il milione l’anno i procedimenti iscritti nelle Procure italiane e altrettanti sono avviati in Tribunale. Per una parte consistente delle notizie di reato - secondo dati del ministero della Giustizia - il pubblico ministero chiede l’archiviazione, in genere accolta: nell’ultimo anno giudiziario (2020-2021) sono stati quasi 430mila i decreti di archiviazione emessi dall’ufficio del giudice per le indagini e per le udienze preliminari a fronte di 81mila rinvii a quello del dibattimento. Tra questi, è alta la percentuale di assoluzioni (46% in primo grado, che sale al 68,7% per i giudizi di opposizione al decreto penale di condanna, se la pena è solo pecuniaria).

Secondo il presidente della Corte d’Appello di Napoli, Giuseppe De Carolis di Prossedi, sul gran numero di notizie di reato «le denunce infondate sono moltissime, ma il pm deve sempre aprire un procedimento perché l’azione penale è obbligatoria (un feticcio, la definiva Giovanni Falcone, ndr)». Il dato sulle assoluzioni «se arriva al 40-50% - ha rilevato ancora l’alto magistrato al “Sole 24 Ore” - vuol dire che il pm ha esercitato l’azione penale senza elementi certi di colpevolezza. Ma è anche un effetto del sistema accusatorio in cui la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio fra le parti». La riforma Cartabia prevede che il giudice dell’udienza preliminare debba pronunciare sentenza di «non luogo a procedere» quando «gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna». Il Csm rinnovato è parte di un disegno più ampio, per rendere la giustizia italiana finalmente più giusta.

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