Sinistra contro il presidenzialismo. Renzi mina vagante

ITALIA. Nella tarda mattinata di oggi nella Biblioteca del presidente della Camera si avvierà la discussione sulle riforme costituzionali, forse uno dei riti più visti e rivisti della politica degli ultimi quattro decenni.

È Giorgia Meloni e la sua maggioranza che vogliono provare a realizzare da subito l’antico sogno della destra: il presidenzialismo, l’elezione diretta del vertice dello Stato e/o del governo, un sistema leaderistico che garantisca la stabilità di una intera legislatura per chi vinca le elezioni e debba guidare il Paese (la Nazione, direbbe Meloni). Progetto che naturalmente è come il fumo negli occhi per la stragrande maggioranza delle opposizioni, sia di sinistra che grillina: vedono in esso il germe dell’autoritarismo tanto più da temere perché come dice Elly Schlein, «questa destra è pericolosa», ossia è ancora mezza fascista e dunque figuriamoci se le diamo in mano un cannone come il presidenzialismo. Tra le minoranze parlamentari solo il Terzo Polo si avvicina alle posizioni della maggioranza sostenendo il modello del cosiddetto «sindaco d’Italia», ossia l’elezione del presidente del Consiglio a quel punto un vero e proprio premier all’inglese con gli ampi poteri che gli deriverebbero dall’indicazione popolare e che andrebbero a limitare considerevolmente quelli del Capo dello Stato (che rimarrebbe una figura di garanzia ma privato di parecchie di quelle leve che oggi ne preservano il ruolo e il potere).

Sia Conte che la Schlein, con argomenti diversi hanno detto no a discutere con Meloni e Salvini di presidenzialismo. Accettano di andare ad ascoltare ma solo per denunciare il tentativo del governo di distrarre l’opinione pubblica dalla sua incapacità di gestire dossier fondamentali come quelli del Pnrr. A queste obiezioni Meloni ha risposto da un comizio ad Ancona: io, ha detto, voglio il dialogo ma non accetto posizioni pregiudiziali o aventiniane, per cui se le opposizioni si defilano noi andiamo avanti comunque, forti del mandato elettorale che comprende anche le riforme costituzionali. Tradotto: se vi tirate indietro vi ritrovate il presidenzialismo votato da noi che abbiamo i numeri sufficienti sia alla Camera che al Senato.

In realtà è una minaccia un po’ gonfiata. Se infatti la destra avesse sia alla Camera che al Senato la maggioranza dei due terzi nelle quattro votazioni necessarie alla riforma costituzionale, potrebbe approvare il presidenzialismo senza dover poi sottoporsi al referendum.

Ma quei numeri non li ha, per cui se va avanti da sola nelle aule parlamentari, come dice Meloni, deve poi però superare anche la prova referendaria. Vale la pena ricordare che per ben due volte l’elettorato ha bocciato ampie riforme approvate dal Parlamento: è accaduto al centrodestra, governo Berlusconi, e al centrosinistra, governo Renzi. Tant’è vero che in Transatlantico già si parla di un «rischio» Renzi: cara Giorgia attenta a non fare la fine di Matteo. A meno che di dare a quest’ultimo un enorme potere: quello di aggiungersi ai voti del centrodestra per consentire di arrivare ai due terzi di voti favorevoli.

Difficile che accada. Ma se accadesse sarebbe un enorme smacco per il Pd di Elly Schlein, sempre più radicalizzato a sinistra, appiattito sulle posizioni della Cgil e della Fiom e quindi anti-renziano. Tanto a sinistra che continua a perdere per strada pezzi di argenteria: se ne va dal Pd e dal Senato anche Carlo Cottarelli che dice di «sentirsi a disagio» in un partito in cui non si riconosce: come e prima di lui il dc Fioroni, il liberale Marcucci, il popolare Borghi. Sono fughe che a via del Nazareno, tra i fedelissimi della segretaria, suscitano poco più che un’alzata di spalle. Forse ignorano che il prestigio di un economista come Cottarelli spoglia ancor di più il partito di quella veste di affidabilità istituzionale che gli ha consentito in tutti questi anni di sopravvivere alle sue grandi contraddizioni interne.

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