Terrorismo islamista
L’ideologia e le guerre

Un paio di mesi fa i servizi segreti americani in una nota riservata avvisarono la Casa Bianca: in caso di ritiro delle truppe Nato, la débacle delle forze governative afghane sarebbe avvenuta in poche settimane. Ma il ritiro è proceduto spedito. Ancora più inquietante è un altro documento, redatto da un centro di analisi militare privato, che aiuta a comprendere l’altra resa: secondo il presidente Biden l’esercito fedele a Kabul era costituito da 300 mila soldati professionisti addestrati dagli stessi statunitensi.

In realtà ne sarebbe rimasto un terzo. Gli altri erano inesistenti, conteggiati dal governo afghano per avere i fondi da Washington. Gli Stati Uniti hanno così contribuito con 750 milioni l’anno a un esercito in parte fantasma, con diserzioni che indebolivano ogni anno l’esercito del 25%.

Ma riavvolgiamo il nastro. Vent’anni fa gli angloamericani dopo gli attacchi terroristici negli Usa decisero di abbattere il regime talebano perché dava ospitalità ad Osama Bin Laden e alla sua organizzazione Al Qaeda, ideatore degli attentati dell’11 Settembre 2000. Bin Laden fu poi ucciso il 2 maggio 2011 in un blitz ad Abbottabad, in Pakistan. Quel Pakistan che finanzia, arma e ospita «scuole di formazione» degli studenti coranici tornati ora al potere a Kabul. Ma Al Qaeda in vent’anni di presenza Nato non è stato eradicata dall’Aghanistan, dove è presente in 15 province, secondo le Nazioni Unite. E ci sono pure cellule dello Stato islamico. Anche da questo punto di vista la missione dell’Alleanza atlantica ha rappresentato un fallimento. Gli angloamericani nell’aprile 2003 attaccarono invece l’Iraq, con l’accusa al dittatore Saddam Hussein di nascondere armi chimiche (mai trovate) in grado di colpire Paesi occidentali. Le forze americane con i loro alleati si trovarono così a dover gestire due Stati distrutti e ribelli. In Iraq nacque lo Stato islamico, che raccolse consensi tra la popolazione sunnita, vittima di rivalse del governo sciita.

Le due guerre furono presentate sotto il cappello di «esportazione della democrazia», quasi a renderle eticamente accettabili. Ma anche di «War on terrorism», guerra al terrorismo. Il bilancio di questa operazione oggi è negativo. Se è vero che lo Stato islamico è ridimensionato in Iraq e Siria rispetto ai fasti di quando controllava un territorio grande come la Gran Bretagna e abitato da 9 milioni di persone, è però tornato a mettere radici e ad espandersi nei due Paesi. Ma soprattutto il Califfato, nonostante l’uccisione del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi nel 2019, si sta paurosamente diffondendo in Africa, dove gestisce traffici di droga, armi e persone (e dove Al Qaeda era già presente): nel Sahel (Mali, Niger e Ciad) e penetra a Sud verso il cuore del continente (Benin e Ghana), con robuste presenze in Nigeria, Corno d’Africa e Mozambico. Nel 2020 gli attacchi islamisti in Africa sono cresciuti del 43%.

Nel Sahel sono presenti 4 mila soldati francesi (ma l’Eliseo ne ha deciso il ritiro graduale) che combattono gli jihadisti e 200 italiani che formano gli eserciti locali. Ma c’è un problema che prima o poi andrà affrontato: qualsiasi forma di terrorismo è innanzitutto un’ideologia. Quella islamista, interpreta il Corano in chiave oltranzista e combatte la modernità che ha «corrotto» anche Medio Oriente, Asia e Africa. Il 90% dei musulmani che aderiscono alla jihad sono indottrinati via internet. A un combattente dell’Isis viene offerto uno stipendio di 400 dollari, in terre dove il lavoro non esiste e la povertà è schiacciante. Come prosciugare l’acqua nella quale nuotano Stato islamico e Al Qaeda? È questa la domanda di fronte alla quale Stati Uniti ed Europa si trovano dopo il fallimento afghano e la risposta questa volta non va più cercata unilateralmente.

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