Toto ministri, vediamo chi comanda davvero

Giovedì si terrà la prima seduta delle nuove Camere e i parlamentari dovranno eleggere i loro presidenti. Sarebbe elegante, per dir così, che l’accordo sui due nomi che rivestiranno la seconda e la terza carica dello Stato sia stretto entro mercoledì, domani.

Dalle parti di Fratelli d’Italia, si promette che così sarà: «fare presto» ripete come per incoraggiarsi la candidata alla presidenza del Consiglio, Giorgia Meloni che però pare che la cosiddetta «quadra» – come si diceva ai tempi di Umberto Bossi – ancora non l’abbia trovata.

La promessa è che tutto sia pronto per domani sera, ma pochi ci credono. I giornali ancora sono disseminati di toto-ministri, si scrivono e pubblicano racconti particolareggiati di trattative, negoziati, battibecchi, ricatti e ultimatum. Non accettiamo pregiudizi, fa sapere un Berlusconi tornato cavaliere d’attacco. Nessun pregiudizio ma nemmeno nessun freno alla costruzione di un governo autorevole, replica piccata Meloni. Siamo pronti e all’altezza insiste Matteo Salvini che pure sa di non poter andare al Viminale, e forse ormai si è rassegnato, e nelle previsioni vaga tra l’Agricoltura e lo Sviluppo economico (le cui sedi, a Roma, distano poche centinaia di metri). I tre si rivedranno a stretto giro, dal momento che l’ultima riunione – pare particolarmente vivace – non è stata risolutiva.

Il punto è strettamente politico. Meloni deve affermare la propria premiership senza sottostare troppo alle pretese degli alleati: di uno deve temere il nuovo spirito di rivalsa dopo che ha raccolto un insperato 8% (i sondaggi gliene attribuivano poco più della metà) e dell’altro la volontà di non farsi umiliare per via del tracollo elettorale. È chiaro che sia Lega sia Forza Italia faranno valere la essenzialità dei loro voti e su quello premeranno per avere la massima soddisfazione nella ripartizione delle poltrone. La Meloni deve però affermare anche la sua autonomia, altrimenti rischia di partire già indebolita dalle pretese altrui, e sottoponibile ad un lento logoramento.

Insomma, bisogna decidere e chiudere. A cominciare, come dicevamo, da Camera e Senato che dovrebbero rimanere in mano alla maggioranza (Fratelli d’Italia e Lega: già, chi e dove?). Ma Meloni quando parla di governo di prestigio, intende che vuole nei ministeri di prima fila dei supertecnici, ancorché «di area» (lo spiegava bene Adolfo Urso ieri in tv: persone autorevoli nel loro campo ma anche con una dichiarata ispirazione politica conforme al centrodestra). Il problema è che per il ministero numero uno, l’Economia, finora Meloni ha raccolto solo rifiuti: Fabio Panetta, componente del board della Bce e già stretto collaboratore di Draghi in Banca d’Italia, preferisce rimanere a Francoforte fino a quando potrà sostituire Vincenzo Visco come governatore della Banca d’Italia (che resta in carica molto più di un ministro…). E anche il professor Scannapieco – altro Draghi-boy – ha fatto sapere che ha da finire il lavoro alla Cassa Depositi e Prestiti. Di un altro candidato, l’ex ministro Siniscalco, oggi a Londra, non si sa. Quando l’aria è questa, in genere succede che si scende piano piano di livello alla ricerca di qualche preside di facoltà universitaria, come successe al governo giallo-verde. Resta però l’opzione politica-politica: Giancarlo Giorgetti, il leghista bocconiano che di economia capisce e che farebbe la sua figura anche se all’estero non è certo conosciuto come le prime scelte. Il punto è: Salvini gli lascerà occupare un posto tanto importante, da vero numero due del governo?

Giorgia Meloni dovrà fare appello a tutta la sua abilità di politica consumata per comporre il puzzle: non ha una adeguata esperienza di governo, è una esordiente, ma certo non le mancano né l’abilità né la grinta. E poi è lei che ha vinto le elezioni: il centrodestra, un tempo a trazione berlusconiana, poi salviniana, oggi è meloniano. E gli altri dovranno – almeno per i primi tempi – farsene una ragione. Poi si vedrà.

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