Turchia, Erdogan meno invincibile

ESTERI. Il tempo passa per tutti, anche per quelle personalità che sembrano invincibili e intramontabili. Alla soglia della settantina e in cattivo stato di salute, Recep Tayyip Erdogan sta affrontando la partita decisiva della sua carriera politica.

Per la prima volta da un ventennio i suoi avversari si sono uniti e hanno trovato un leader – il 74enne Kemal Kilicdaroglu - in grado di poterlo battere. I sondaggi danno i due contendenti affiancati oltre il 40% delle preferenze, a pochi punti dalla vittoria al primo turno delle presidenziali del 14 maggio, giornata in cui si terranno anche le legislative. Vacillano così il suo potere personale e quello del partito Akp che hanno profondamente influenzato le sorti della Turchia da inizio secolo. In caso di sconfitta di Erdogan sarebbero inimmaginabili anche le ripercussioni geopolitiche visto il ruolo che Ankara svolge nella tragedia russo-ucraina, in Africa e in Medio Oriente. Ecco la ragione per cui la posta in gioco è alta.

Ma quali sono i termini della battaglia elettorale in Turchia, membro Nato, Paese critico dell’Ue e ospitante milioni di profughi diretti in Europa? Quali le tematiche? È evidente che, come è avvenuto ad altre latitudini, in presenza di personalità così forti la polarizzazione nella società sia stata inevitabile. La Turchia si è divisa in due: tra chi è o era favorevole al «sultano» e chi era contro. Grazie ai suoi tre mandati da premier, Erdogan è stato il politico che ha gestito il boom economico, l’uomo della crescita inarrestabile che ha tirato fuori dalla povertà milioni di turchi, del rafforzamento della classe media, della modernizzazione in ogni settore. Il riformista inatteso che, col passare degli anni, si è trasformato in politico autoritario e populista, a detta dei suoi detrattori. Le proteste di Gezi Park nel 2013 furono il campanello d’allarme che qualcosa non andava. E la conferma giunse tre anni dopo col fallito golpe dei militari, a cui Erdogan sopravvisse a fatica, avvertito in tempo da una telefonata di Vladimir Putin.

Seguirono mesi di arresti e licenziamenti di centinaia di migliaia di persone. Quindi la successiva riforma costituzionale – da fasce della società non digerita - con la trasformazione della Turchia in repubblica presidenziale per garantirsi il potere.

La conversione in una moschea del museo con il complesso dove sorge la cattedrale di Santa Sofia, per secoli tempio di riferimento per la Cristianità orientale, è stata l’ultimo colpo inferto allo Stato secolare costruito da Ataturk negli anni Venti del XX secolo. Ironia della sorte a contendere il potere ad Erdogan sono proprio gli eredi di Mustafà Kemal, unitisi attorno al «Gandhi» del Bosforo, Kemal Kilicdaroglu, un politico dai toni sempre pacati – per alcuni osservatori sonnolenti – con un’incredibile somiglianza fisica al Mahatma indiano.

Le grandi città, controllate dai liberali, chiedono il cambiamento; le regioni conservatrici «no». La pesante crisi economica, l’inflazione fuori controllo (50%), la pessima gestione del dopo-terremoto in febbraio in dieci province del sud sono elementi che peseranno nella consultazione quasi come il moto emerso contro la corruzione, una delle cause dell’aggravamento del bilancio del sisma.

Erdogan spera che i suoi sostenitori, anche se delusi, si turino il naso e gli consegnino il solito voto ideologico. Ma il «sultano» - oggi, a sorpresa, male in arnese - riuscirà a convincerli? Prevarrà di nuovo nella interminabile guerra culturale in corso da anni? Oppure Erdogan dovrà arrendersi agli acciacchi fisici e al suo tramonto politico?

© RIPRODUZIONE RISERVATA