Un’alleanza
che tiene
non significa
buona salute

Mancano ancora due anni alla fine della legislatura e di questi tempi due anni in politica sono un’eternità. Avanzare perciò una previsione sul voto del 2023, è un esercizio, più che azzardato, avventato. Restiamo fermi all’oggi. A dar ascolto ai sondaggisti, tra i due poli quello che sta peggio è il centrosinistra. I Cinquestelle, da quando Conte è stato sloggiato da Palazzo Chigi, soffrono di una sorta di sindrome dell’orfano. Faticano a riconciliarsi con l’idea che non si può vivere solo di nostalgia, che il governo Draghi non è un incidente di percorso, che l’ex presidente della Bce non è un inquilino abusivo né transitorio del palcoscenico nazionale, ma che anzi ne è diventato il protagonista principale.

Dal canto suo, il Pd è preso dalla sindrome del disincanto. Non riesce a riprendersi dal colpo subìto nel vedere traballare l’alleanza con il M5S inaugurata sotto ben altri auspici. Sulla carta sarebbe il momento d’oro del centrodestra. I numeri (sempre dei sondaggi) continuano a darlo in vantaggio, per di più sull’onda di un trend in crescita (aggiustamenti al suo interno a parte) e con una tenuta dell’alleanza ben salda (come s’è visto con le candidature unitarie a sindaco varate nei capoluoghi chiamati al voto). Tenuta non significa, però, buona salute. Non sono pochi i suoi punti di sofferenza, per di più in via di aggravamento.

Primo fronte di debolezza. È stata rimessa in gioco la leadership di Salvini, scontata fino a pochi mesi fa. È una competizione sorda, ma non per questo poco aspra, il tutto a danno della sua immagine e, in prospettiva, della coesione.

Secondo. Fosse una lotta sulle idee, potrebbe anche risultare proficua. Almeno, fornirebbe all’elettorato chiari elementi di giudizio: è tutta giocata invece sui personalismi, con il ricorso anche a colpi bassi. Ultimo in ordine di tempo, la bocciatura del candidato di FdI al consiglio di amministrazione della Rai, che segue al boicottaggio della Lega al nome proposto dalla Meloni per la presidenza del Copasir. I due maggiori partiti del centro-destra non duellano per politiche alternative. Gareggiano più a scavalcarsi che a smarcarsi. Lo stanno facendo su lockdown, green pass, obbligo del vaccino, prescrizione e altro ancora, peraltro con oscillazioni e talora con giravolte che arrecano danno alla loro credibilità come forze di governo.

Terzo. Non milita a favore della coerenza e della saldezza della coalizione il comportamento erratico assunto nei confronti dei tre governi succedutisi. Con il Conte I, Fd’I e Fi si sono messi all’opposizione del governo sostenuto dal loro alleato Salvini. Sono tornati uniti col Conte II, non per libera scelta ma per necessità. La divergenza è riemersa col governo Draghi, questa volta con la variante del passaggio di Fi in maggioranza. Segno che, alla prova del fuoco, al momento ad esempio della formazione di una futura maggioranza, c’è da aspettarsi di tutto.

Quarto. La lotta all’ultimo consenso di Lega e Fd’I avviene pur sempre nel campo populista, il che minaccia di relegare il centrodestra in una posizione di isolamento in Europa e di fargli perdere di vista una semplice verità: ossia, che un voto in più conquistato nel proprio campo non assicura un voto in più strappato all’avversario.

Quinto. Mentre la competizione per la leadership nel proprio campo richiede di mobilitare i fedeli, quella in campo aperto esige la capacità di persuasione sugli indecisi. È su questo punto che il centrodestra accusa una grande difficoltà. Lo si è visto quando è stato chiamato a scegliere le candidature a sindaco nei capoluoghi chiamati al voto d’autunno. S’è reso conto allora della povertà della sua classe dirigente e s’è visto costretto a ripiegare su dei nomi civici, non di partito. Un ulteriore elemento di debolezza.

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