Valichi, i costi dell’emergenza

MONDO. Senza voler minimamente sminuire l’enormità della sfida posta dai flussi migratori alle frontiere meridionali e in parte orientali dell’Italia, ci sono ragioni sempre più pressanti – economiche e infrastrutturali – per non perdere di vista cosa sta accadendo anche ai confini occidentali e settentrionali del nostro Paese.

Come se non bastassero i lavori di manutenzione straordinaria nel tunnel autostradale del Monte Bianco (tra Valle d’Aosta e Francia) o le limitazioni alla circolazione degli automezzi imposte dal governo di Vienna al Brennero (tra Trentino Alto-Adige e Austria), ora anche il precario «stato di salute» di due valichi ferroviari sulle Alpi sembra destinato a causare gravi danni alla nostra economia. Stiamo parlando del valico ferroviario del Fréjus (tra Piemonte e Francia), che dopo una frana dello scorso agosto potrebbe rimanere chiuso fino alla fine del prossimo anno, e del tunnel di base del San Gottardo (in Svizzera, in prossimità del confine con la Lombardia), cioè la galleria ferroviaria più lunga del mondo (57 chilometri) che a causa di un deragliamento avvenuto lo scorso 10 agosto non tornerà pienamente operativa prima della fine della prossima estate.

Questi due passi sono strategici, non soltanto per l’Italia a dire il vero. Il primo, il Fréjus, è decisivo per il funzionamento di un corridoio che si estende – attraverso la pianura Padana - dalla Spagna all’Ungheria. Il secondo, il San Gottardo, si trova sul cosiddetto corridoio «Reno-Alpi», un asse che dall’Olanda e dal Belgio arriva fino al porto di Genova, attraversando la pianura Padana stavolta in direzione nord-sud; e «nelle regioni che sono attraversate da questo asse – secondo le stime presentate ieri all’Università Milano Bicocca dall’economista Andrea Giuricin - insiste una popolazione di circa 180 milioni di abitanti e un Pil complessivo di 7.400 miliardi di euro».

L’Italia, per la sua posizione geografica e la sua dotazione infrastrutturale, è ancora più penalizzata da questa sorta di «tempesta perfetta». Per le sole compagnie ferroviarie, calcola sempre Giuricin, le chiusure dei due valichi si traducono in una forte riduzione dei fatturati a fronte di costi fissi che sono comunque da sostenere, con un impatto calcolato in quasi 50 milioni di euro l’anno nel breve periodo (32 milioni persi via Fréjus, che – ricordiamo - è completamente chiuso, 15 milioni via Gottardo), e di poco superiore ai 140 milioni nel lungo periodo. Purtroppo le conseguenze non saranno confinate alla sola logistica di trasporto su ferro. Circa il 60% dell’import/export tricolore passa per tutti i valichi alpini fin qui nominati, e di questo il 34% si sposta su binari. Detto con altre unità di misura, «nel complesso, ogni anno, nei valichi alpini attraverso Austria, Svizzera e Francia, passano quasi 170 milioni di tonnellate di merci – osserva sempre Giuricin -. Di queste, quasi il 50% va verso l’Austria, per raggiungere poi successivamente il primo partner economico che è la Germania. Di queste, quasi 170 milioni di tonnellate, circa un terzo viaggia su ferrovia, evidenziando l’importanza di tale modalità per il commercio estero italiano». E pensare che se la Tav Torino-Lione fosse funzionante, osserva Giuricin, si sarebbe evitata la chiusura completa del valico del Frejus, visto che la galleria ora in costruzione sostituisce proprio il tratto che è stato interessato dalla frana.

Secondo l’economista esperto di trasporti, «le regioni italiane maggiormente interessate da queste chiusure sono quelle del Nord-Ovest», fra cui la Lombardia, «che nel complesso registrano un Pil di circa 600 miliardi di euro l’anno. (…) Anche solo stimando un aumento del 5% dei costi logistici ferroviari, l’impatto negativo sull’economia del Nord-Ovest potrebbe arrivare fino a 870 milioni di euro l’anno». Stime preliminari, ma dalle quali si evince ancora una volta che un sistema logistico e infrastrutturale efficiente è alla base della competitività di un Paese come il nostro, «trasformatore» per eccellenza, che si approvvigiona di materie prime e beni intermedi sui mercati internazionali e che poi esporta beni lavorati in grandi quantità all’estero. Peccato ricordarsene solo al momento dell’emergenza.

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