Le violenze al Beccaria e i figli di nessuno

ITALIA. Non chiamiamole «mele marce». Gli episodi, gravissimi, contestati agli agenti di polizia penitenziaria arrestati nel carcere minorile Beccaria di Milano, un fatto senza precedenti in Italia, sono un sintomo di una malattia purtroppo ormai in fase terminale.

Non si vuole giustificare le responsabilità individuali, che andranno accertate. Ma va detto con chiarezza che a questo punto siamo arrivati grazie a scelte precise, suggerite da una massiccia dose di coscienza offuscata. Non solo in campo penale e condivisa con preoccupante trasversalità politica.

Il Beccaria, che nella sua storia è stato il fiore all’occhiello degli istituti minorili italiani (in un Paese dove il diritto penale minorile ha fatto scuola in Europa e nel mondo) è da anni precipitato in una situazione simile a tanti altri istituti per minori: sovraffollamento, mancanza di educatori, turn -over continuo di direttori. Il tutto accompagnato da interminabili lavori di ristrutturazione che rendono gli spazi ancora più difficili da organizzare.

Nessuna situazione di emergenza giustifica le azioni nefande che sono state contestate agli agenti. Vale la presunzione di innocenza per tutti, ma gli atti dell’indagine restituiscono una realtà raccapricciante e indegna di un Paese con la nostra storia.

Ma cosa è cambiato negli ultimi anni per far precipitare un sistema modello nel girone infernale descritto nelle carte dell’inchiesta?

I numeri del ministero della Giustizia, elaborati dall’associazione Antigone, forniscono qualche risposta. A febbraio 2024 nei 17 istituti penali per minorenni (Ipm) si trovavano 532 reclusi (312 minorenni e 211 giovani adulti, 18 donne). Nel 2023 sono entrati negli Istituti minorili 1.143 ragazzi, un numero mai raggiunto negli ultimi dieci anni (secondo Antigone una delle ragioni è l’introduzione del decreto Caivano, quello sulle baby gang). Il 94,3% dei detenuti negli Ipm è in regime di custodia cautelare, quindi si trova in carcere in attesa di giudizio. Vero che non è frequente che i ragazzi detenuti escano a fine pena dal regime carcerario (di solito si trovano percorsi alternativi), ma è altrettanto vero che questa evenienza, una delle principali cause di recidiva (secondo la regola ormai accertata dalle statistiche secondo la quale più si sta in carcere più è probabile che si torni a delinquere una volta fuori), è in ascesa: nel 2022 i ragazzi usciti dagli Ipm a fine pena erano il 25,5% degli usciti per esecuzione di pena, nel 2023 sono stati il 31%. Quelli usciti in affidamento il 29,9%, calati al 27% del 2023.

Insomma, le dinamiche che già mettono in ginocchio il sistema penitenziario degli adulti (scarso personale e poco attrezzato a fronteggiare le nuove tipologie di detenuti, sovraffollamento, strutture vetuste e poco capienti, panpenalismo diffuso nei dispositivi giuridici di nuova generazione), hanno portato sull’orlo del baratro il circuito degli istituti minorili, che fino a poco tempo fa ne sembrava immune.

A complicare le cose c’è anche il fenomeno ormai incontrollato dei minori stranieri non accompagnati. Al Beccaria rappresentano l’80% dei detenuti (che in tutto sono 75). Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, in un’intervista a «Il Giorno» ha detto: «Queste caratteristiche richiedono competenze specifiche nella relazione con adolescenti difficili. Ci vuole personale formato e selezionato, perché non tutti gli agenti hanno l’attitudine a vivere e confrontarsi con i ragazzi».

Ecco, ripartiamo da qui. Anche da noi. Da uomini e donne che sappiano essere non solo custodi, ma anche punti di riferimento per quelli che don Fausto Resmini chiamava «i figli di nessuno». Non perché siano orfani, ma perché figli di una società che invece di fare di tutto per «esserci» (altra espressione cara a don Fausto), preferisce abdicare al ruolo educativo e girarsi dall’altra parte.

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