«C’è bisogno di un mondo che sappia di famiglia»

L’INTERVISTA. Monsignor Francesco Beschi fu ordinato sacerdote il 7 giugno del 1975. Qui si racconta ai bergamaschi, oltre che in una intervista a Bergamo Tv.

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Se rifarebbe la stessa scelta, non gli è stato chiesto, e con il senno di poi - quello di cui sono piene le fosse - si sarebbe dovuto. Ma dopo una chiacchierata di circa tre quarti d’ora siamo certi che la risposta sarebbe stata un «sì» pieno, convinto, con tanto di punto esclamativo. Monsignor Francesco Beschi - Vescovo di Bergamo, ordinato sacerdote il 7 giugno del 1975 - racconta quel giorno di mezzo secolo fa e la sua vita sacerdotale con grande serenità e con un filo di commozione, che di tanto in tanto fa capolino tra una riflessione e l’altra. È grato al Signore per quel che la vita gli ha riservato, sia come uomo - cresciuto in una famiglia «gioiosa» e ancora oggi molto unita - sia come prete e come pastore di una Diocesi che domani lo festeggerà con grande affetto e riconoscenza per il grande lavoro intessuto nella nostra comunità dal 22 gennaio del 2009, quando Papa Benedetto XVI lo scelse per la guida della Diocesi di Sant’Alessandro. Appassionato di musica (suona il violino), di arte e di letteratura - tre ambiti da cui ha sempre tratto grandi soddisfazioni, anche spirituali - parte dalla famiglia, piccola Chiesa domestica, per arrivare a sperare in «una famiglia del mondo», o in «un mondo come famiglia». La famiglia «è imperfetta» - sottolinea Beschi - ma «è insostituibile». E la nostra chiacchierata inizia proprio da qui.

I primi passi nella fede li ha mossi nella sua famiglia, con cui ha sempre avuto un rapporto molto stretto. Se dovesse descriverla con un aggettivo, quale userebbe?

«Direi che la mia è stata una famiglia gioiosa. Ci siamo voluti bene e questo ha sempre alimentato un clima di gioia. Anche i miei genitori hanno desiderato che noi potessimo crescere in questo clima. Come in tutte le famiglie, non sono mancati i momenti faticosi, ma il clima di gioia che l’ha caratterizzata ha contribuito a infonderci quel senso di fiducia che poi nella vita si è rivelato un patrimonio molto importante, anche nei momenti meno gioiosi. Le cose possono andare bene o male, ma avere una fiducia che si alimenta dal volersi bene e dalla fede - perché la mia è stata una famiglia ricca di fede - è stato molto importante».

Si ricorda la prima volta che ha pensato a Dio?

«Penso sia un momento di catechismo. Non so bene il perché, ma ho fatto la Prima Comunione che non avevo ancora 6 anni. Ricordo poco o nulla, ma rammento nitidamente la fede della mia catechista e un’interrogazione del parroco, che mi chiese “cos’è la Grazia”. Risposi che “la Grazia è un pezzettino di Dio in noi”. Ecco, questa risposta, che stupì non poco il parroco, è stato forse il primo momento in cui ho pensato a Dio».

Da dove nasce l’idea di diventare sacerdote?

«Un’estate - ero in colonia a Cesenatico - una sera una suora mi avvicinò e mi chiese se non avessi mai pensato di diventare sacerdote, di entrare in Seminario. Ero piccolo, e risposi di no, che non ci avevo mai pensato. Però da quel momento è come se un seme mi fosse stato gettato nel cuore»

«Oltre che dai miei genitori, la fede mi è stata trasmessa e mi è stata testimoniata anche dai miei nonni, ma la prospettiva di diventare prete non era mai emersa. Tuttavia un’estate - ero in colonia a Cesenatico - una sera una suora mi avvicinò e mi chiese se non avessi mai pensato di diventare sacerdote, di entrare in Seminario. Ero piccolo, e risposi di no, che non ci avevo mai pensato. Però da quel momento è come se un seme mi fosse stato gettato nel cuore. Al termine delle scuole elementari, dissi ai miei genitori che mi sarebbe piaciuto andare in Seminario, ma mamma e papà, pur felici, mi dissero di aspettare ancora un po’. Finii le medie e iniziai il ginnasio in Seminario, ma nel frattempo avevo cominciato a studiare musica al Conservatorio, così fecero un’eccezione e mi permisero di continuare a frequentarlo anche se ero già in Seminario».

Chi l’ha sostenuta in tutto il suo percorso? A quali figure, a quali teologi si è ispirato?

«Figure di credenti, innanzitutto i miei genitori e i miei nonni. Io avevo nonni di città e nonni di campagna, e anche loro sono stati molto importanti per me, pur con una formazione e una testimonianza diverse: mio nonno di città era molto impegnato anche a livello sociale, mio nonno contadino era l’espressione di una fede che si trasmette di generazione in generazione, fino a diventare sapienza, la sapienza della vita. Poi alcune figure sacerdotali, i miei parroci, i curati del mio oratorio, suore, religiose, un mondo molto domestico, parrocchiale, “circoscritto”, non un grande mondo, come poi diventò quando entrai in Seminario. Gli anni del mio percorso in Teologia, dal 1970 al 1975, furono veramente turbolenti, anche nel senso più bello della parola, dove tutto era messo in discussione. Valeva per noi seminaristi, ma anche per i nostri insegnanti. E qui emerge una figura di teologo che nella mia vita - pur con la consapevolezza di tutti i miei limiti, anche culturali - ha influito moltissimo sulla mia visione, quella di Romano Guardini, il cui magistero mi è stato trasmesso da un insegnante a lui molto legato e che ha inciso profondamente su di me».

Lei è stato ordinato sacerdote il 7 giugno 1975 e ha celebrato la sua prima Messa nella parrocchia di Sant’Anna. Che ricordi ha di quei giorni?

«Un ricordo struggente. Allora Sant’Anna era un quartiere di periferia della città, fatto di case popolari. Era un quartiere totalmente nuovo, tanto che quando la mia famiglia si trasferì lì non c’era ancora la parrocchia, che venne istituita dopo. L’ho vista nascere, crescere, ho visto costruire la chiesa, l’oratorio, la scuola dell’infanzia… Pian piano la parrocchia e il quartiere (dov’erano rappresentate tutte le 99 province d’Italia!) sono cresciuti, e io sono entrato pienamente in questa vicenda parrocchiale. E così tutto il quartiere ha vissuto la mia ordinazione sacerdotale con una partecipazione che ancora oggi mi commuove. Eravamo ragazzi, cresciuti un po’ tutti insieme, e tutti si sono sentiti coinvolti: c’è stata una partecipazione corale, e oltre all’emozione per il passo che stavo per compiere, per il dono che stavo per ricevere, sentivo molto anche questa coralità che mi stava accompagnando».

Qual è la chiave di volta della sua pastorale?

«Le esperienze che ho fatto, a partire dalla mia famiglia, dalle mie parrocchie, i sacerdoti, i percorsi che ho seguito, le persone e le sensibilità che ho incontrato hanno modellato le mie scelte. L’essere prete non vuol dire solo essere vicino alla gente, ma vicino alla vita, alla vita delle persone, ispirandosi al Vangelo, che è ciò che il nostro Maestro, il Signore Gesù, ci consegna. E questa vicinanza diventa addirittura una sorta di incarnazione. Questo, fondamentalmente, è stato il senso della mia vita. Il motto che avevamo scelto come compagni di Messa era “Al servizio di Cristo e al servizio dei fratelli”. Ricordo che il nostro Vescovo, Monsignor Morstabilini, ci disse che avrebbe preferito “al servizio di Cristo per i fratelli”. La figura del servitore a me piace molto: servitori della gioia, servitori della vita, servitori del Vangelo e della Grazia. Devo dire che questo ha ispirato tutta la mia pastorale».

Nella sua vita di sacerdote ci sono stati momenti di tristezza?

«Tristezza è quando sei messo a parte del dolore delle persone. Devo dire che personalmente non ho sofferto tanto, e a volte mi domando perché. Ho visto tanta sofferenza, molto più di quella che ha toccato la mia vita e la mia famiglia. Ancora oggi ho tutti i miei fratelli, i miei nipoti, ci vogliamo bene, e anche nelle parrocchie ho vissuto una vita serena, a volte con delle prove personali, ma comunque serena. Ho invece incrociato tante sofferenze. Se ritorno nel passato, ricordo episodi molto dolorosi che riguardano i giovani e la loro fine drammatica. Ho sofferto molto e soffro tuttora anche per gli episodi dolorosi che toccano la vita dei preti. Quando qualcosa investe la vita di un prete, crea sofferenza nella vita di un prete oppure il prete è causa di sofferenza per altri, questi sono per me i momenti più difficili e più dolorosi».

Tra le esperienze più difficili credo ci sia quella del Covid, un periodo che lei visse affidando Bergamo e i bergamaschi alla Madonna, con la recita del Rosario nelle chiese e nei santuari mariani più significativi della Diocesi. Come le venne questa intuizione?

«Confesso molto candidamente che l’idea è stata di un sacerdote. I primi giorni ero smarrito: tutto era fermo, tutto era chiuso, persino nelle chiese - che pure erano formalmente aperte - non ci andava nessuno perché la situazione era quella che era, e non la vogliamo dimenticare. Un sacerdote, a fronte del mio interrogarmi su cosa fare, mi disse “lei deve celebrare, lei deve pregare”. E a quel punto ho sentito il vento forte dello Spirito Santo che mi ha detto “va bene, parti”, e così ho iniziato le celebrazioni in Cattedrale, da solo, con davanti le telecamere e i due operatori di Bergamo Tv. Poi nella chiesa dell’ospedale per la Settimana Santa, nei santuari mariani e nei luoghi significativi in cui siamo andati a pregare il Rosario. Rileggendo questa esperienza alla luce del criterio che ispira la mia pastorale, la colloco nel solco delle parole di Papa Francesco, secondo cui il vescovo deve stare a volte davanti, a volte in mezzo e a volte dietro il suo popolo: a me piace tanto stare in mezzo, però in quel momento ho avvertito che dovevo stare davanti, e quello mi ha spinto a proseguire».

Lei è nato sotto il segno di Pio XII. Qual è stato il suo rapporto con i Pontefici?

«Sono nato ai tempi di Pio XII e ho visto Pio XII: mio nonno mi portò a Roma e ricordo ancora il Papa che passava in mezzo alla gente sulla sedia gestatoria. Pio XII è stato una grande figura di Papa nella formazione della vita dei cattolici di allora, a cui seguì la grande sorpresa di Papa Giovanni. Ero ragazzino e ricordo l’inaugurazione del Concilio e il ruolo della televisione, che fece diventare il “Vaticano II” un evento mondiale»

«Sono nato ai tempi di Pio XII e ho visto Pio XII: mio nonno mi portò a Roma e ricordo ancora il Papa che passava in mezzo alla gente sulla sedia gestatoria. Pio XII è stato una grande figura di Papa nella formazione della vita dei cattolici di allora, a cui seguì la grande sorpresa di Papa Giovanni. Ero ragazzino e ricordo l’inaugurazione del Concilio e il ruolo della televisione, che fece diventare il “Vaticano II” un evento mondiale. Avevamo una televisione in bianco e nero in casa, e quello con Raniero La Valle ed Ettore Masina era l’appuntamento quotidiano in cui si raccontava il Concilio, che nella televisione ebbe il suo grande canale di comunicazione. Papa Giovanni lo si vedeva attraverso la televisione: certo la sua voce era famosa, risuona ancora oggi, ma l’immagine di Papa Giovanni, la sua postura, il suo volto, il suo modo di essere era estremamente comunicativo e questo suo modo di essere è stato trasmesso in tutto il mondo proprio dalla televisione. Papa Giovanni non è stato soltanto il “Papa buono”, ma questa immagine, rimbalzata in ogni angolo della Terra, è un’immagine pacificante. Quando Papa Roncalli è morto, il mondo intero ha pianto davvero, e la commozione che ha accompagnato la sua scomparsa non ha più avuto uguali».

E poi venne Paolo VI, un bresciano sul soglio di Pietro.

«Ero ancora un ragazzo e ricordo che stavamo giocando in una pausa degli esercizi spirituali a Monte Castello quando vidi affacciarsi dalla finestra un sacerdote che annunciò l’elezione del Papa, un bresciano, Paolo VI. Credo che i grandi doni di Paolo VI siano state l’“Evangelii Nuntiandi”, la lettera sull’evangelizzazione del mondo, e l’esortazione apostolica “Gaudete in Domino”, una bellissima lettera sul tema della gioia, lui che non sorrideva mai. Paolo VI l’ho riscoperto molti anni più tardi, quando andai a dirigere il Centro pastorale Paolo VI, che allora ospitava l’Istituto Paolo VI, che a sua volta era il custode dell’archivio personale di Paolo VI. Per me è stata una grande gioia poter approfondire la conoscenza di questo Papa e del suo Magistero, che, a mio giudizio, ha ispirato tutti i Papi che gli si sono succeduti, e ancora oggi è capace di ispirare moltissime coscienze».

Lei è nato il 6 agosto del 1951 e 27 anni dopo, il 6 agosto del 1978, Paolo VI moriva, nel giorno in cui la Chiesa ricorda la Trasfigurazione, una festa molto cara a Papa Montini. Non ha mai riflettuto su questa coincidenza?

«Non ho mai dimenticato che il 6 agosto del 1945 è scoppiata la prima bomba atomica, così come il 6 agosto del 1978 è avvenuta la morte di Paolo VI»

«Sì, ho riflettuto tantissimo. Innanzitutto ho riflettuto molto sulla festa, su questa rappresentazione assai misteriosa, ma certamente luminosissima, della trasfigurazione di Gesù: mi ha sempre coinvolto molto e non sono ancora riuscito ad entrare totalmente in questo evento evangelico. E poi sono consapevole di alcune combinazioni o di alcuni segni che accadono nella vita di ciascuno di noi. Non ho mai dimenticato che il 6 agosto del 1945 è scoppiata la prima bomba atomica, così come il 6 agosto del 1978 è avvenuta la morte di Paolo VI. Nel bellissimo memoriale di Paolo VI custodito nel Duomo di Brescia e realizzato da Lello Scorzelli, uno scultore raffinato e amico di Paolo VI, ci sono delle formelle, una delle quali rappresenta la morte di Papa Montini. Scorzelli rappresenta il Papa nel letto, a testa in giù (perché Pietro muore a testa in giù), in un “disegno” molto mosso, mentre sopra il letto, in una lunetta e con una finezza veramente unica, è rappresentata la trasfigurazione di Gesù. Tutti questi motivi sono presentissimi alla mia vita, e sono i motivi ispiratori della mia stessa vita».

«Amore è una parola a volte sprecata, abusata, ma rimane la parola più bella e più grande del mondo. Ogni persona vive di questa parola e io ho vissuto dell’amore così come ogni uomo. Da bambino, la mia famiglia, i miei genitori, i miei fratelli, le amicizie, che sono una delle espressioni più belle dell’amore. Poi si diventa adulti e le amicizie si approfondiscono, si consolidano: l’amicizia è veramente una delle espressioni grandi dell’amore»

Nella vita di ciascuno di noi l’amore occupa sempre uno spazio particolare ed è vissuto in maniera molto personale. Come si è evoluto nel tempo il suo rapporto con l’amore, da quello filiale verso i genitori a quello adolescenziale fino ad arrivare all’amore per Cristo e per la Chiesa?

«È una domanda molto delicata e molto personale. Credo che la ragione d’essere di ogni persona umana abbia a che fare con l’amore. Non solo di ogni persona umana, ma dell’umanità nella sua interezza. Amore è una parola a volte sprecata, abusata, ma rimane la parola più bella e più grande del mondo. Ogni persona vive di questa parola e io ho vissuto dell’amore così come ogni uomo. Da bambino, la mia famiglia, i miei genitori, i miei fratelli, le amicizie, che sono una delle espressioni più belle dell’amore. Poi si diventa adulti e le amicizie si approfondiscono, si consolidano: l’amicizia è veramente una delle espressioni grandi dell’amore. E poi gli innamoramenti, questa delicatezza del rapporto, la meraviglia, lo stupore, il desiderio, che alla luce di una chiamata si orienta sempre di più e diventa l’amore per coloro che il Signore vuole affidarti. Perché anche qui è servire la vita, servire perché le persone possano amare. E questo può avvenire soltanto se vedono una testimonianza d’amore, se percepiscono la gratuità dell’amore, una delle caratteristiche dell’amore che poi matura nella vita di un prete. Un passaggio molto importante, delicato, personale, è avvenuto nel momento in cui mi sono soffermato su una costatazione particolare, ed è la prima volta che la racconto. Io credevo di stare interpretando l’amore nella forma dell’aiuto alle persone, invece mi sono reso conto che non era “semplicemente” così. L’amore è un mettere in gioco la propria persona, comunque: è la relazione che conta, e in questa relazione c’è la mia condizione di prete, io sono un prete e quindi amo. Il prete non è la mia professione, è la mia condizione, è anche il mio modo di amare, che non è soltanto aiutare, ma entrare in relazione con le persone alla luce dell’amore da prete».

«Tempo libero? Qualcosa c’è, vado in vacanza, vado con la mia famiglia, ma ultimamente anche per ragioni legate all’età e alla salute, vado a camminare, e quello lo ritengo il mio tempo libero, oltre che un tempo molto favorevole per pregare: camminare e pregare fa molto bene alla salute dell’anima e del corpo»

Un sacerdote, un vescovo ha del tempo libero?

«No, perché la nostra non è una professione per cui a un certo punto, finito il proprio lavoro, si torna a casa. Certo, qualcosa c’è, vado in vacanza, vado con la mia famiglia, ma ultimamente anche per ragioni legate all’età e alla salute, vado a camminare, e quello lo ritengo il mio tempo libero, oltre che un tempo molto favorevole per pregare: camminare e pregare fa molto bene alla salute dell’anima e del corpo».

E il tempo per i vecchi amici c’è?

«Questa è la cosa che mi rimprovero maggiormente. I miei amici sono molto amici perché sopportano questa mia “latitanza”. Non è “distanza”, assolutamente, ma l’amicizia va coltivata, va tenuta, ma questa dedicazione alla missione ha un po’ penalizzato i rapporti di amicizia, che sono ancora molto belli per l’amore e la fedeltà dei miei amici».

«Sì, c’è bisogno di più famiglia. Io vorrei trasformare questa domanda nel mio augurio, nella mia speranza: c’è bisogno di una famiglia del mondo, di un mondo come famiglia, a partire dalla realtà concreta delle nostre famiglie, le nostre famose famiglie, grandi e imperfette»

Abbiamo iniziato con la famiglia, finiamo con la famiglia, non la sua, ma quella del mondo. C’è bisogno di più famiglia oggi nel mondo?

«Sì, c’è bisogno di più famiglia. Io vorrei trasformare questa domanda nel mio augurio, nella mia speranza: c’è bisogno di una famiglia del mondo, di un mondo come famiglia, a partire dalla realtà concreta delle nostre famiglie, le nostre famose famiglie, grandi e imperfette. Credo che proiettare sulla famiglia attese impossibili sia un modo per appesantirla, per schiacciarla. Per sua natura, la famiglia è imperfetta, ma credo che non ci sia realtà umana più desiderata e più desiderabile delle relazioni familiari, imperfette ma insostituibili, che diventano poi una grande lezione per comunità più vaste. Certo, non tutti i rapporti dell’organizzazione sociale possono essere ricondotti a un rapporto familiare, ma certamente l’ispirazione delle relazioni familiari, credo possa rappresentare un grande tesoro per la visione dell’umanità sotto questo profilo».

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