La truffa da 100 milioni, Cerea punito nel penale. Vince nel civile

IL CASO. Condannato a maggio nel processo sui raggiri alla cognata di Gori, investitrice inesperta. Ma il giudice rigetta la nuova istanza sul sequestro di 84 milioni: «Non era del tutto sprovveduta».

Vittima sprovveduta di un manipolatore che le aveva carpito la fiducia, come è stata tratteggiata la sua figura nel processo penale. Investitrice consapevole, stando alle decisioni dei giudici civili. Sulla presunta truffa da cento e passa milioni di euro che avrebbe patito Cristina Caleffi, cognata dell’ex sindaco di Bergamo Giorgio Gori, le due giustizie continuano a viaggiare su binari paralleli e in direzioni opposte.

Gianfranco Cerea, 63enne di Bergamo, manager e collezionista di opere d’arte, a maggio è stato condannato in primo grado dal giudice penale Alice Ruggeri a 6 anni e 10 mesi per autoriciclaggio e tentata estorsione (le truffe sono state dichiarate prescritte), pena che va ad aggiungersi a quella definitiva a tre anni rimediata per false dichiarazioni nella Voluntary disclosure. Le motivazioni della sentenza emessa tre mesi fa non sono state ancora depositate. In sostanza, a Cerea è contestato di aver raggirato Caleffi con una serie di operazioni di investimento, anche in opere d’arte, che la donna, figlia di un’importante famiglia di industriali novaresi, aveva assecondato fidandosi ciecamente del 63enne.

Ma nella giustizia civile l’interpretazione dei fatti risulta antitetica. I cinque giudici che dall’inizio dell’anno si sono pronunciati sul sequestro conservativo di 84 milioni di euro a Cerea hanno finora rigettato le istanze dei legali di Caleffi. A gennaio Raffaella Dimatteo aveva dissequestrato la somma. A marzo il collegio presieduto da Laura Giraldi (a latere Francesca Bresciani e Chiara Mazzoni) aveva respinto il reclamo contro il dissequestro. In entrambi i pronunciamenti a Caleffi veniva attribuita «una conoscenza dettagliata e puntuale delle operazioni».

E ora, il 21 luglio scorso, il giudice Maria Concetta Elda Caprino ha bocciato il nuovo ricorso presentato l’11 giugno da Cristina Caleffi, intenzionata a ravviare la causa del sequestro conservativo sulla scorta della sentenza di condanna emessa dal tribunale penale a maggio. La donna, che lamenta un danno di 113.501.355,01 euro, chiedeva al giudice di agire su «tutti i beni immobili e mobili, crediti, somme di denaro, quote o azioni societarie, titoli e/o valori» di Gianfranco Cerea e di altri due soggetti: Gianluigi Signorelli, il commercialista nei confronti del quale il giudice Ruggeri aveva disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la genuinità della sua deposizione testimoniale a processo, ritenuto da Caleffi un prestanome di Cerea e qui chiamato in causa quale «trustee» (fiduciario) del trust Bove Rosso; e la società Siff, una di quelle ritenute nell’orbita del 63enne.

La dottoressa Caprino nel suo pronunciamento scrive come la «richiesta di misura cautelare non possa essere accolta», perché la «ricorrente (Caleffi, ndr) basa il suo diritto risarcitorio patrimoniale sull’accertamento penale attuato nei confronti del Cerea e da cui fa derivare operazioni in conflitto di interesse piuttosto che a suo danno». Ma in sede civile il giudice, «allo stato degli atti», non riesce a riconoscere «l’assoluta ignoranza o mancanza di consapevolezza circa i rischi delle operazioni finanziarie da parte della ricorrente (Caleffi, ndr)». Sulla documentazione della fiduciaria Aletti, attraverso la quale sono state effettuate diverse operazioni di investimento, annota Caprino, «vi è la firma della Caleffi non disconosciuta, né da far risalire a firma apposta su fogli bianchi, a prova del fatto che le singole operazioni, oggi in qualche misura contestate, fossero state conosciute e approvate dalla stessa Caleffi. Difficile pertanto ipotizzare una assoluta ignoranza della rischiosità delle operazioni finanziarie e sociali poste in essere, peraltro con elevatissimi capitali e da parte di un soggetto che non poteva definirsi del tutto “sprovveduto” rispetto a vicende societarie». Il giudice sottolinea infatti che « la ricorrente faceva parte di una Spa di famiglia e che proprio dalla vendita delle sue quote azionarie sociali al fratello deriverà il patrimonio da 130 milioni di euro che ella decide di investire attraverso le operazioni oggi contestate».

Infine, per il giudice, «l’intenzione (di Cerea, ndr) di sottrarre alla garanzia del credito tutti o alcuni dei suoi beni» è rimasto solo «un mero sospetto», nonostante – e qui si richiama alle sentenze penali – «una pur asserita particolare indole del debitore (Cerea, ndr) a porre in essere frodi a danno di Stato o soggetti privati». Non risulta che i legali di Caleffi abbiano presentato reclamo contro la decisione e i termini per farlo sono scaduti. Così, alla fine i cento e passa milioni di euro reclamati come risarcimento dalla cognata di Gori potrebbero restare nella disponibilità di Cerea.

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