Un lampadario caduto e tanti calcinacci: «Così incontrai gli Amici di Moyamoya»

Dai lavori di ristrutturazione della Casa di Monica l’inizio di un impegno nel volontariato per Marilena Bettineschi

La storia di Marilena Bettineschi come volontaria dell’associazione Amici del Moyamoya alla «Casa di Monica» in via delle Cave, in città, è iniziata in modo un po’ singolare, con un lampadario caduto sul letto della sua camera e una pioggia di calcinacci . «Sapevamo che c’erano lavori in corso al piano di sopra - racconta lei con un sorriso -. Era sabato, ero uscita presto per andare a fare la spesa e quando sono tornata mio marito Tiberio, in grande agitazione, mi ha mostrato cos’era successo».

Marilena non si era troppo stupita, perché aveva capito che l’intervento di ristrutturazione dell’appartamento al piano di sopra era davvero radicale: «Stavano rifacendo completamente gli impianti, rimuovendo i vecchi pavimenti. Giusi Rossi, la responsabile dell’associazione, è venuta subito a scusarsi, assicurandoci che tutti i danni sarebbero stati riparati. Poi ha voluto ad ogni costo comprarmi un lampadario nuovo . Ci siamo capite subito, ed è stato l’inizio di una bella amicizia. Giusi mi ha raccontato la sua storia, mi ha parlato della morte di sua sorella Monica a causa della malattia di Moyamoya . Ho subito pensato che fosse veramente in gamba, per aver trasformato il suo dolore in un così grande impegno per aiutare gli altri. Mi ha confidato che per lei era complicato seguire da vicino l’appartamento, dato che abitava a Scanzorosciate, e che stava cercando qualcuno che l’aiutasse. Ci ho pensato un momento, perché i miei nipotini erano ancora molto piccoli e le mie figlie avevano bisogno del mio aiuto, ma ho deciso di offrirle la mia disponibilità, e ne sono stata molto felice».

«Se allevierò il dolore di una vita/ o guarirò una pena/ non avrò vissuto invano» scrive la poetessa inglese Emily Dickinson, ed è questo il messaggio che trasmettono le mani dei volontari dell’associazione Amici del Moyamoya impresse su un grande murales nell’atrio ad accogliere gli ospiti di Casa di Monica al Villaggio degli Sposi. Ci sono palmi aperti e dita di tutti i colori, e l’effetto che fanno, guardandoli, è quello di un grande, sorridente abbraccio.

Poi c’è il ritratto di Monica, la sorella di Giusi Rossi, morta a causa di questa patologia cerebrovascolare rara che si manifesta con l’occlusione progressiva delle arterie che portano al cervello. Moyamoya in giapponese significa «nuvolette di fumo», perché è questo l’aspetto delle «arterie di compenso» che si formano spontaneamente per aggirare i blocchi . Un segno di resistenza del corpo che si rispecchia nella tenacia e nella determinazione dei pazienti che devono convivere con la malattia. Monica non c’è più ma continua ad animare con la sua memoria e il suo spirito le attività di sostegno ai malati che vengono a curarsi all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, diventato nel frattempo un centro di riferimento per chi soffre di Moyamoya.

L’inaugurazione quattro anni fa

Sono passati quattro anni dall’inaugurazione, una grande festa alla quale hanno partecipato volontari e amici che hanno contribuito a vario titolo ad allestire gli spazi: c’è chi si è impegnato nella raccolta fondi, chi ha messo a disposizione risorse e materiali, e chi ha lavorato concretamente dividendosi i compiti di tinteggiatura, sistemazione interna, pulizia.

È una vera casa, molto accogliente, con dipinti e fotografie appesi alle pareti, e tanti oggetti e messaggi di ringraziamento che richiamano le storie di persone giunte all’Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo in cerca di cura, speranza, attenzione. Nell’associazione hanno trovato una grande famiglia sempre presente .

Marilena ha due figlie e quattro nipoti tra i nove e i quattro anni, e manifesta la generosità e l’energia che la caratterizzano come mamma e nonna nel suo compito di custode attenta e sollecita della casa : «Accogliamo prevalentemente i parenti delle persone con Moyamoya ricoverate in ospedale che arrivano da fuori - osserva -. Il primo contatto con loro nasce sempre dalle necessità pratiche come la consegna delle chiavi, qualche chiarimento sull’uso degli elettrodomestici, i documenti e le regole di base per il soggiorno. Poi però io resto sempre a disposizione per dare una mano, offrire un po’ di compagnia o semplicemente per ascoltare».

Dall’appartamento originale sono stati ricavati un monolocale e un bilocale indipendenti con un ingresso e una lavanderia in comune. Sono stati completamente rinnovati e attrezzati con tutto ciò che occorre per la vita quotidiana.

«Spesso lo spazio non ci basta - osserva Marilena - ci arrivano tante richieste, perché il nostro ospedale è un punto di riferimento in Italia per la cura di questa patologia, grazie alla presenza di medici competenti come il neurochirurgo Andrea Lanterna». Arrivano qui per curarsi persone da altre regioni e a volte anche dall’estero. Giovani, adulti, anziani, famiglie con bambini piccoli, con esigenze molto diverse tra loro.

Legami che restano

Nella memoria di Marilena ognuno di loro conserva un posto speciale: «A volte restano a lungo, anche per mesi, prima di poter tornare a casa. Ricordo per esempio l’incontro con una signora pugliese che accompagnava la figlia di 23 anni. Quando è uscita dall’ospedale dopo l’intervento la giovane non parlava e non camminava più . L’hanno trasferita nel centro di riabilitazione di Mozzo, dove pian piano grazie alle terapie ha ripreso sia il linguaggio sia il movimento, ma ci è voluto tempo, almeno tre o quattro mesi. Poi una signora sarda, di una gentilezza squisita, assistita dai due figli. Chiacchieravamo volentieri, la chiamavo ogni tanto per sentire come stava, ho sofferto molto quando ho saputo che era morta. Mi sono rimasti nel cuore anche due bambini molto piccoli, uno egiziano e l’altra croata, entrambi in condizioni gravi: avrebbero potuto essere i miei nipoti» . Quando ha iniziato Marilena non sapeva niente della malattia di Moyamoya: «Sono entrata in contatto con un mondo di grande sofferenza che prima non avevo mai incontrato. È inevitabile che con i nostri ospiti nascano rapporti di amicizia, affetto e comprensione. Quando arrivano sono sconosciuti, quando se ne vanno sono diventati di famiglia. Non è solo questione di consegnare le chiavi. Le persone che accogliamo hanno bisogno prima di tutto di vicinanza».

L’associazione ( www.amicidelmoyamoya.org ) lascia agli ospiti la possibilità - se lo desiderano - di versare un contributo volontario, «ma chi è in difficoltà viene ospitato gratuitamente - chiarisce Marilena -, con il vincolo di fermarsi solo per il tempo necessario, in modo da lasciare la stessa possibilità ad altri». Le spese, ovviamente, sono tante e per la manutenzione, le bollette e tutto quanto ciò che serve l’associazione avvia periodicamente iniziative di raccolta fondi.

Marilena si è presa a cuore il suo compito: «Mi è sempre piaciuta l’idea di impegnarmi nel volontariato. Sono una “peperina”, mi piace chiacchierare, conoscere persone nuove e sono lieta di potermi rendere utile. La mia vita è cambiata grazie all’attività di volontariato. Il dolore, anche quello degli altri, è una scuola di vita. Mi ritengo fortunata, in passato non mi sono capitati grandi dispiaceri . Quest’estate, purtroppo, uno dei miei fratelli ha avuto un malore ed è ancora ricoverato in gravi condizioni. Dopo questa esperienza ho provato ancora più ammirazione per il coraggio dimostrato dalle persone con Moyamoya e dai loro familiari. Stare con loro in questi anni mi ha spinto a riconsiderare che cosa sia davvero importante nella vita. A volte ci perdiamo in minuzie, ci lasciamo distrarre da stupidaggini, perdendo di vista ciò che ha più valore».

Marilena riesce a scovare meraviglie nella semplicità della vita quotidiana: «Basta trascorrere qualche momento insieme per alleviare la solitudine. Mi sono resa conto di quanto possano essere preziosi un sorriso e una parola gentile. Capitano anche momenti di grande soddisfazione: ricordo per esempio una giovane mamma con un bambino di pochi mesi, arrivata da Verona. L’intervento è andato bene ed è rimasto con loro un rapporto bellissimo, il piccolo cresce, spesso mi mandano le foto».

L’ospitalità nell’emergenza Covid

La pandemia ha reso tutto più difficile: «Durante la prima ondata, quando l’ospedale era al limite abbiamo ospitato alcune dottoresse arrivate dall’estero per dare una mano a curare i malati di Covid-19. Dovevano stare in ospedale giorno e notte, avevano pochissime ore di riposo. Ci è sembrato doveroso offrire il nostro contributo in un momento di gravissima crisi per la nostra città. Ci sono stati momenti complicati per tutti, anche per i pazienti di Moyamoya che - come gli altri - non potevano ricevere visite».

Questa è stata la prima esperienza di volontariato per Marilena: «Mi sono sempre detta che mi sarei impegnata in quest’ambito, ma ho sempre rimandato per dedicarmi alla mia famiglia. Ora però sono tutti contenti, perché hanno capito che non trascuro i miei doveri di nonna, mamma e moglie». Con il tempo ha imparato che è proprio ciò che dona agli altri a dare un senso pieno alla vita, come scrive Madre Teresa: «Chi nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno non è vissuto invano». Così è anche per lei, e forse ogni tanto ripensa a cosa sarebbe successo se quel lampadario non fosse caduto: «Tengo molto ad aiutare chi ne ha bisogno e penso che aggiungerò anche qualche altra attività a quelle che già svolgo, a sostegno di una persona anziana oppure, quando sarà possibile, accanto ai pazienti dell’ospedale Papa Giovanni. Anche attraverso gesti semplici, concreti, perché ho scoperto che riempiono di senso le mie giornate».

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