Nessuna fragilità imprigiona i sogni. E la rivoluzione parte da un biglietto

LA STORIA. Letizia e Rachele, figlia e madre collaborano con San Paolo in Bianco. Tutto è cominciato dagli auguri agli anziani.

«Non abbassare mai lo sguardo. Tienilo sempre in alto. Guarda il mondo negli occhi»: la tenacia e il coraggio erano segni distintivi di Helen Keller, scrittrice, attivista e insegnante sordo-cieca. Come lei anche Letizia Limoli, giovane di 18 anni con sindrome di Down, e sua madre Rachele Fucella hanno scoperto col passare degli anni che nessuna fragilità può imprigionare i sogni, a patto di insistere, non arrendersi e non farsi scoraggiare dalle difficoltà.

A sostenerle in questo cammino è l’associazione San Paolo in Bianco di Bergamo, in cui persone con e senza disabilità si impegnano fianco a fianco in attività di volontariato, creatività e intrattenimento.

Le attività di San Paolo in Bianco

«Letizia - spiega la mamma Rachele - partecipa alle iniziative di San Paolo in Bianco una volta alla settimana. Si reca in autonomia da casa al ritrovo per le attività. Consegna con la sua squadra di volontari i libri del Sistema bibliotecario urbano a chi non può recarsi in biblioteca, oppure consegna lettere di auguri agli anziani della parrocchia. Distribuisce le locandine del cineteatro Lottagono, oppure partecipa a laboratori. In tutte queste attività è affiancata da educatrici e da altri ragazzi, con o senza fragilità. Alla fine, c’è sempre tempo per una merenda al bar, dove ha imparato a chiedere da sola che cosa desidera. Grazie a queste esperienze ha imparato a essere più autonoma anche in altri contesti, per esempio al bar sulla spiaggia quando si trova in vacanza al mare con noi e con i suoi fratelli Gabriele e Michela».

Un passo importante, che l’ha portata a credere di più in se stessa: «Sicuramente - continua Rachele - la partecipazione a queste progettualità l’ha aiutata a superare un momento di disorientamento quando si è resa conto di essere in una condizione diversa rispetto ai suoi compagni di scuola».

L’associazione San Paolo in Bianco è come una seconda famiglia per lei, dove ha trovato una strada per esprimersi: «È fondamentale avere un luogo che permetta di sentirsi protagonisti, entrare in relazione tra loro, ognuno con la consapevolezza di essere parte attiva dell’associazione e di poterle offrire un contributo importante».

La storia di Letizia è iniziata «in salita»

«Quando aveva tre anni abbiamo notato che era molto pallida, ci hanno consigliato di sottoporla ad analisi di controllo ed è arrivata una diagnosi che nessun genitore vorrebbe, leucemia linfoblastica. Abbiamo dovuto affrontare due anni di cure continue, sei mesi trascorsi quasi sempre in ospedale. La ricordo come un’esperienza molto “tosta”, come se avessi dovuto scendere all’inferno, vedere il diavolo, che è davvero brutto, per riuscire poi a risalire. All’ospedale di Bergamo nel nostro reparto purtroppo c’erano altri bambini che non ce l’hanno fatta, fra loro anche Giulia Gabrieli, una ragazza straordinaria. In quel periodo la incontravamo spesso e lei sorrideva sempre. Quando le chiedevamo come stava, non si mostrava mai sofferente, rispondeva “meglio” e ci incoraggiava ad avere speranza».

Durante il periodo di ricovero sono nati legami di amicizia e solidarietà con gli altri bambini e famiglie: «Abbiamo conosciuto persone straordinarie, tutto il personale ci ha dimostrato vicinanza e solidarietà. Poi per fortuna è arrivato il momento di tornare a casa, proseguendo i controlli prima molto ravvicinati, poi via via con intervalli più lunghi».

L’udienza ristretta da Papa Francesco

Grazie ai genitori di Giulia qualche anno dopo Rachele e Letizia hanno vissuto un’esperienza straordinaria: «Tra i suoi desideri - ricorda ancora Rachele - c’era quello di incontrare il Papa, e l’associazione ConGiulia, fondata dopo che lei è partita per il cielo, ha fatto in modo che altri bambini ricoverati in quel periodo potessero realizzarlo. Siamo andati insieme a Roma e abbiamo partecipato a un’udienza ristretta. Quando siamo arrivati in sala Nervi, Papa Francesco ha visto Letizia, che all’epoca aveva cinque anni, le ha sorriso allargando gli occhi in un’espressione di stupore, le si è avvicinato e l’ha stretta in un abbraccio. È stata una grandissima emozione, che portiamo sempre nel cuore».

Letizia e la scuola

Poi Letizia ha iniziato ad andare a scuola: «L’abbiamo accompagnata affiancando alle lezioni tante sedute di logopedia e psicomotricità. All’inizio parlava pochissimo, poi col tempo siamo riusciti a ottenere risultati importanti. Alle scuole medie ha incontrato insegnanti davvero in gamba. Purtroppo, nel periodo del Covid non è stato facile seguire le lezioni a distanza, anche se lavoravo in smart-working e potevo starle vicino. La scuola si è comunque prodigata per offrirle sostegno. Mi ricordo in particolare l’insegnante di musica, che ogni lunedì pomeriggio chiedeva di poter lavorare singolarmente con lei per un’ora, e così alla fine dell’anno Letizia riusciva a modulare i suoni con il flauto. Anche altri insegnanti la seguivano per un maggior numero di ore».

Il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado non è stato indolore: «Letizia si è iscritta al liceo delle Scienze umane all’istituto Secco Suardo, dove ha trovato un ambiente molto accogliente. Ha sofferto molto, però, per la separazione da insegnanti e dai suoi amici. Con l’adolescenza è cresciuta la sua consapevolezza delle differenze con le sue coetanee. Ha iniziato a pormi domande difficili, per esempio mi ha chiesto perché lei non fosse come gli altri, le ho spiegato che ha un cromosoma in più, ma non è stato facile per lei capire e accettare. La sua classe era composta da ragazze eccezionali, ma all’inizio purtroppo Letizia si è chiusa, non ha più parlato, ha perso interesse per attività che invece prima le piacevano, come il nuoto. Quando tornava a casa da scuola si chiudeva in camera sua al buio, non voleva più giocare né svolgere qualsiasi altra attività».

Rachele conosceva da tempo Silvia Galimberti, fondatrice e presidente di San Paolo in Bianco: «Abbiamo parlato di Letizia e lei mi ha proposto di portarla a un incontro dell’associazione. Così ha iniziato a portare i biglietti di auguri per il compleanno alle persone anziane della parrocchia di San Paolo, un’attività che lei chiama con semplicità “le buste”. Ha segnato una svolta importantissima: le ha permesso di recuperare entusiasmo e slancio. Da allora ha iniziato a dedicarsi anche ad altre iniziative e ogni volta torna a casa contenta, come se avesse ritrovato la speranza che nel mondo ci sia spazio anche per lei. Ha scoperto di poter offrire il suo contributo alla società e perfino aiutare gli altri. Quando torna a casa ha sempre uno sguardo felice. Si sente a suo agio anche nelle situazioni informali, come gli aperitivi organizzati una volta al mese dall’associazione, ha trovato nuovi amici, si trova in un ambiente a cui sente di appartenere, che la riconosce e la accetta completamente».

Anche Rachele ha deciso di impegnarsi nell’associazione

«Ho chiesto a Silvia se avesse bisogno di una mano, per mettere a disposizione la mia esperienza in ambito amministrativo e legale, dato che lavoro in banca da 35 anni. Mi ha colpito molto che l’associazione si occupi di inclusione a tutto tondo, non solo nell’ambito delle disabilità: ne fanno parte persone con fragilità e senza, di diverse età, culture e provenienze. Fra i progetti in cui è coinvolta Letizia ci sono per esempio la consegna della spesa oppure dei libri della biblioteca a casa delle persone anziane. Sono occasioni in cui, al di là del servizio svolto, si creano incontri e relazioni. I volontari sono divisi in squadre e in ognuna c’è un educatore professionale della cooperativa Serena, partner di questi progetti. Tutto viene fatto a titolo gratuito per i partecipanti, a parte la quota di iscrizione annuale, che è comunque alla portata di tutti, così queste esperienze diventano facilmente accessibili. Non è scontato, perché queste attività innescano un cambio di mentalità, riconoscono il valore di chi le compie, rafforzandone l’autostima».

Aiuto a tutto tondo

Anche per questo Rachele si è messa in gioco nell’attività di raccolta fondi: «Organizziamo dei banchetti nei quali esponiamo oggetti realizzati dagli stessi ragazzi e volontari durante i laboratori creativi. Io stessa mi sono reinventata, sono sempre stata un’amante dei ricami, ma ora ho riscoperto l’uncinetto, con cui realizzo amigurumi, piccoli animali e pupazzi colorati per i nostri mercatini. Aiutare gli altri è un’esperienza che fa bene, la felicità si trasmette e si moltiplica. Le attività amministrative e legali sono più complesse, perché oggi gli adempimenti richiesti a un’associazione di volontariato sono molti».

Non è semplice far quadrare il bilancio alla fine dell’anno e trovare sostenitori disposti ad aiutare: «Quello che ci viene offerto, però, ha un valore sociale immensamente più alto. Per me è inestimabile vedere mia figlia felice, scoprire che ha recuperato fiducia in se stessa e che riesce a trovare un posto nel mondo. Mantenere una persona sofferente e sempre chiusa in casa ha un costo molto più alto per la società. Creare luoghi di espressione e d’incontro contribuisce quindi a creare un circolo virtuoso che migliora la vita di tutti».

L’intento è quello di mandare in frantumi pregiudizi e luoghi comuni

«Le persone con abilità diverse e con fragilità - sottolinea Rachele - sono comunque in grado di offrire un contributo importante alla società. La loro presenza ci aiuta a guardare la vita in modo più aperto e profondo, a scoprirne lati che altrimenti resterebbero inosservati. Anche un piccolo gesto come consegnare un biglietto d’auguri può avere una carica rivoluzionaria».

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