«Condannato a 17 anni per omicidio, sono rinato grazie a don Roberto»

La storia. Zef Karaci, giudicato esecutore di un delitto a Carobbio nel 2005, si è convertito durante il carcere. Ora un suo libro racconta il prete-amico ucciso a Como.

«Per anni ho vissuto allo sbaraglio, tra traffici di droga e prostituzione, poi mi hanno condannato a 17 anni per un omicidio volontario avvenuto nel 2006 a Carobbio degli Angeli e in carcere, dopo i primi due anni in cui ho litigato con tutti, ho trovato la mia strada a partire da quando, per la prima volta, ho incontrato delle persone che mi hanno amato e perdonato. Tra loro don Roberto Malgesini, ucciso il 15 settembre 2020: per questo ho deciso di raccontare di lui in un libro, perché non venga dimenticato».

Il libro si intitola «Don Roberto Malgesini: vai e prendi loro per mano» (edito da Cantagalli, con prefazione del cardinale Oscar Cantoni, vescovo di Como) e l’autore è Zef Karaci, albanese di 38 anni, dallo scorso 5 dicembre affidato in prova fuori dal carcere dove ha scontato la sua condanna per essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Costel Ionut Mihalace, ucciso a 24 anni nel novembre del 2005 durante un regolamento di conti nell’ambiente della prostituzione. «È vero, ero lì, perché facevo parte di quel giro, ma non ho commesso io quel delitto – precisa Karaci –: purtroppo il mio alibi non ha retto e in ogni caso ho rispettato quella sentenza».

Oggi Karaci vive a Barza d’Ispra, sul lago Maggiore, in una comunità di don Guanella e partecipa alla «Locanda della Misericordia», progetto che accoglie una dozzina di giovani per scontare gli ultimi mesi dalla carcerazione come misura alternativa. Una situazione ben diversa dall’arrivo di Karaci in Italia: «Sono arrivato con un barcone nel febbraio del 2001 e mi sono stabilito a Treviglio – racconta –: lavoravo come muratore in nero a Castel Rozzone e ho subito un infortunio grave, per il quale sono rimasto paralizzato per 6 mesi. Dopo essermi ripreso, non potevo più lavorare in cantiere: potevo solo guidare. Così, visto che nessuno mi aiutava, sono entrato nel giro del traffico internazionale di droga. Facevo il corriere e sono letteralmente finito allo sbaraglio. C’erano spesso liti tra i vari gruppi che gestivano spaccio e prostituzione e in quella situazione è arrivato l’omicidio di Carobbio. Il 5 dicembre 2005 mi hanno arrestato».

Prima arriva il carcere a Bergamo, poi il trasferimento a Como, con la condanna definitiva: «All’epoca a Bergamo in carcere si viveva in modo umano, mentre a Como no, tanto che lo chiamavano “carcere spazzatura” perché lì mandavano i peggiori di tutte le altre carceri, tra cui io, che ero rissoso». La svolta arriva dopo l’ennesima lite: «Mi picchio con un tale che poi mi si avvicina e mi abbraccia, sussurrandomi: tu non sei il male che hai fatto. Una frase che mi sconvolge. Ora la leggo come Dio che stava bussando al mio cuore. Decido quindi di frequentare il laboratorio di grafica pubblicitaria del carcere. E io, incapace anche ad accendere un computer, mi trovo a mio agio. Sei mesi dopo sono io a insegnare ai ragazzi come si fa. Ho trovato persone che mi hanno amato e perdonato. Per questo dico sempre che io di carcere ho fatto solo due anni e mezzo: per il resto ho vissuto, anche grazie all’aiuto di tanti amici e di CL.

. «L’unico rammarico è non aver conosciuto prima la fede e aver trascorso quegli anni disperati, quelli dell’omicidio di Carobbio»

Come diceva don Roberto, con cui ho condiviso 12 anni di amicizia, la cella di un carcerato può essere come quella di un monaco, anche se quest’ultimo fa di tutto per entrarvi mentre il carcerato per uscirvi. Penso che sia più importante far uscire il carcere da dentro l’uomo che l’uomo da dentro il carcere, perché c’è chi esce dal carcere fisicamente ma è ancora mentalmente là dentro». L’ultimo incontro con don Roberto il giorno prima del suo omicidio, avvenuto per mano di un senzatetto che aiutava: «Mi disse: là fuori con il Covid è un disastro, ma chi vuoi che mi ammazzi a me? La notizia della sua uccisione mi colpì molto. Già il 5 maggio del 2011 era morta la mamma di una volontaria mia grande amica e mi viene spiegato che “la morte non è l’ultima parola sulla vita”. Leggo quindi il libro di Chiara Corbella Petrillo “Siamo nati e non moriremo mai più” e mi ci ritrovo. L’unico rammarico è non aver conosciuto prima la fede e aver trascorso quegli anni disperati, quelli dell’omicidio di Carobbio».

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