Alluvionati, cosa insegna il soccorso dei giovani

ITALIA. Si dirà che non siamo un Paese per giovani, che peraltro già ne facciamo pochi e che poi ce li lasciamo scappare.

Per giunta un’Italia impigrita da poltronisti scansafatiche, da reddito di cittadinanza dipendente. Davvero? Gli «angeli del fango», l’esercito di volontari, esemplari per numero e impegno, che in queste ore sono al lavoro cantando «Romagna mia», per soccorrere la popolazione colpita dall’alluvione, raccontano un’altra storia. La meglio gioventù, come i loro nonni, i pionieri del fango e del badile che la Firenze allagata del novembre 1966 ci ripropone nelle foto in bianco e nero dell’epoca. Ma che in realtà abbiamo sempre ritrovato quando si trattava di rispondere all’appello: sciagure di varia natura, terremoti, Covid per finire. Se il post pandemia sembrava aver spento le energie giovanili, eccole invece di nuovo benvenute e contagiose, come da immagini delle catene umane.

Alla mobilitazione delle frasi fatte, a chi vede un conflitto opportunista fra giovani e anziani, i ragazzi della primavera ferita rispondono con la solidarietà fra generazioni, con la concretezza del fare, con la spontaneità del radicamento comunitario. Se i grandi non si ritrovano sui fondamentali di uno spirito costituente, tocca a loro, ai più giovani, ricordarci che un’altra idea di Paese è sempre possibile. Teoria e pratica: un futuro stando dalla parte degli altri. Pale, fango, stivali ed entusiasmo per un nuovo status sociale da attivismo creativo.

Al tempo del Covid ce lo siamo detti tante volte: nessuno si salva da solo, tutti vulnerabili ma non tutti alla stessa maniera perché c’è chi è più esposto al rischio. L’esito di quella lezione, acquisita o meno, resta incerto. L’alluvione, però, offre una seconda opportunità già raccolta da questi ragazzi, che possiamo vedere pure come argine alla solitudine e alla frammentazione sociale, i mali del nostro tempo: basti pensare che 13 delle 14 vittime sin qui accertate hanno più di 70 anni. Non solo smontano qualche stereotipo di troppo sulla generazione «Neet», ma restituiscono l’immagine più autentica della società, della sua forza pacifica che nei momenti più difficili non è mai venuta meno. E che replica nei tornanti critici in cui le emergenze diventano l’ospite inatteso della vita di tutti i giorni, determinando un clima d’incertezza continuo.

Quel Paese maggioritario invisibile alla grande cronaca, eppure vitale senza essere chiassoso, che nella provincia profonda trova le sue espressioni più efficaci, incontrando il reale e l’umano, il senso del tempo antico e le fratture della modernità. Là dove sviluppo significa crescita civile. Spaccati esistenziali in cui la parola meccanica «resilienza», entrata nel lessico abituale, viene vissuta quale principio comune. Volti e storie, relazioni, associazionismo, corpi intermedi, capaci di costruire dal basso il welfare di prossimità e percorsi solidali: un patrimonio in contrasto con l’artificio di talune visioni apocalittiche. Patriottismo civico, come aveva insegnato il presidente Ciampi. E anche pragmatismo etico, come ha notato sul «Sole 24 Ore» l’accademico Max Bergami, che negli «angeli del fango» ha riconosciuto tre elementi significativi: capacità di lavorare in team improvvisati, fiducia che si crea spontaneamente tra persone che condividono una finalità o un’identità, desiderio di essere riconosciuti dalla società.

Le vicende di un domani, purtroppo, saranno di altro genere e di segno opposto. Per il momento posiamo l’occhio su questo atterraggio morbido, fra speranza e fiducia. Nonostante tutto. Un capitale immateriale da non disperdere: ce ne sarà ancora bisogno.

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