Democrazia e pace non sono scontate

Ascoltando discorsi in luoghi pubblici o leggendo commenti sui social, emerge una diffusa preoccupazione: che la guerra della Russia in Ucraina possa travalicare i confini facendo deflagrare un terzo conflitto mondiale. Un timore dettato dall’evidenza che in campo è schierata una potenza mondiale (la Russia appunto) la quale a fronte di una reazione militare occidentale alla presa di Kiev, potrebbe scatenare l’inferno armato, trascinando con sé un altro impero, la Cina. Uno scenario apocalittico ma improbabile: la Nato non interverrà con i suoi eserciti per difendere l’Ucraina e Pechino è un alleato riluttante di Mosca, più attento a tutelare i suoi interessi economici nel mondo (e in particolare in Europa) che a combattere un conflitto al seguito degli ex sovietici.

Lo stesso Putin ha convenienza a contenere l’offensiva ucraina nel tempo, sia per una ragione di costi che di rischi: l’obiettivo è fare dei vicini uno Stato fantoccio, un cuscinetto che ammortizzi e allontani il confine della Russia dall’Unione europea, insediare a Kiev un governo fedele privo di ambizioni d’indipendenza. Lo zar ha scelto di usare la forza delle armi per poter ridefinire l’architettura della sicurezza europea. Ma non è detto che il progetto vada a buon fine. Il sentimento di paura di un allargamento per quanto inverosimile dei combattimenti fin nei nostri territori, è però un fatto con il quale fare i conti. L’Europa occidentale ha vissuto fino ad oggi 77 anni di pace. Nel disordine globale nel quale viviamo, prima gli attacchi nel nostro continente del terrorismo jihadista, poi la pandemia di Covid e quindi la guerra nell’ex Urss a duemila km di distanza, hanno generato un senso di precarietà umana. Gli statisti che hanno disegnato l’Ue e l’Onu erano reduci dalle ferite del Secondo conflitto mondiale e puntarono a generare luoghi dove la diplomazia delle nazioni potesse ritrovarsi e ricomporre in via pacifica tensioni e divergenze. La cornice era il dritto internazionale, violato dalla Russia invadendo uno Stato sovrano e indipendente. La pace quindi non è semplicemente l’assenza di guerra, ma una condizione (anche esistenziale) determinata dalla disponibilità ad incontrarsi e a risolvere i contrasti per via non violenta. Non è data una volta per tutte, va difesa giorno per giorno, anche evitando di delegittimare quelle organizzazioni (Ue e Onu) che ci hanno permesso di vivere 77 anni senza conflitti.

Ma anche la democrazia non è una condizione perenne. È un sistema di governo che si basa sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), che necessita anche di coesione sociale, tutela delle minoranze e dei diritti civili, senso di appartenenza a una nazione e libertà responsabile. È figlia di un lungo processo culturale che i nostri antenati hanno percorso anche a prezzo della vita. Abitiamo certo in democrazie malate, che vanno difese curandole, ma pur sempre democrazie. Definire una dittatura quella che ci governa, come è successo per via dei provvedimenti anti Covid, è mendace e irrispettoso di chi vive nelle vere dittature o nelle «democrature», un mix di democrazia e dittatura, come la Russia, dove giovedì scorso in 50 città si sono tenute manifestazioni contro la guerra in Ucraina. È bastata la presenza ai raduni perché la polizia arrestasse 1.400 persone, 700 solo a Mosca.

Infine un’annotazione storica. Il direttore di «Repubblica» Maurizio Molinari ha iniziato così il suo editoriale di ieri: «L’invasione dell’Ucraina precipita l’Europa nella più grave crisi militare dalla fine della Seconda guerra mondiale». Ma non fu meno grave la dissoluzione sanguinosa della Jugoslavia (i Balcani sono in Europa, anche se molti non lo percepiscono), con i suoi orrori tra pulizie etniche, lager, fosse comuni, assedi a città indifese. Conflitti determinati da cause tornate d’attualità in queste ore: nazionalismi paranoidi, vittimismi storici, sogni imperiali (la Grande Serbia e la Grande Croazia), violazioni del diritto internazionale e i contingenti Onu messi in una condizione di impotenza. Trent’anni dopo siamo ancora lì.

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