Finale di partita, rischio collasso

Dunque, oggi si consuma il finale di partita per il governo Draghi nato a febbraio 2021, che l’altro ieri ha firmato lo storico accordo con l’Algeria per aumentare drasticamente le forniture di gas. Ci sarà il voto di fiducia con il quale il premier, mai sfiduciato, potrà misurare il proprio consenso. Si parte dal Senato, dove l’ala oltranzista dei pentastellati è più forte, poi domani alla Camera, dove invece i grillini potrebbero votare la fiducia. Ieri il presidente del Consiglio ha avuto un colloquio con Letta, irritando parecchio il centrodestra che ha alzato le barricate, ma poi è stato ricevuto da Draghi.

Il segno della giornata conferma una tensione crescente. Se l’Italia soffre, gli alleati ci osservano con preoccupazione e Putin potrebbe brindare. Domani, a cose fatte (fine o nuovo inizio), la Bce dovrebbe definire la misura del rialzo dei tassi e, fatto per noi altrettanto importante, annunciare lo scudo anti spread, salito oltre i 220 punti nei giorni scorsi: l’iniziativa di Francoforte in un quadro di stabilità dell’esecutivo italiano può avere un effetto stabilizzante anche sui mercati. Sviluppi che ci ricordano come la crisi del governo abbia un livello interno ed esterno, considerando anche il rilancio euroatlantico, di cui il sostegno alla resistenza ucraina è una componente primaria, impresso dall’Italia. All’appuntamento decisivo (prendere o lasciare) la maggioranza arriva sfibrata e divisa, in un clima di grande incertezza e confusione, giocando allo scaricabarile, con il partito di Conte, in permanente seduta di autocoscienza collettiva, prossimo a una nuova scissione fra governisti e chi da tempo è sintonizzato sulle frequenze dell’estremismo. Pensare razionale è un’impresa dato lo psicodramma in corso, disconnesso dalle urgenze del Paese.

Ci sono motivi, fino a ieri oggettivamente prevalenti, che lasciano pensare al patatrac e ragioni che inducono a un esito diverso: un pertugio, non ancora una finestra d’opportunità. L’onere della chiarezza e della responsabilità tocca prima di tutti ai partiti, perché escano dall’ambiguità, ed era anche questo il senso della pausa di riflessione, del trasparente passaggio in Parlamento, voluto dal presidente della Repubblica. Qui si vede se Draghi correggerà la propria determinata posizione («Non c’è un governo senza i 5 Stelle») alla luce del fatto che quella contiana è ormai un’ex armata allo sbando: nel tentare la spallata a Draghi ha scelto la via dell’irrilevanza, se non dell’autoaffondamento. Se i numeri sulla carta ci potrebbero essere, la questione rimane politica: chi resta con il cerino in mano, chi cerca pretesti per giustificare un nuovo sabotaggio? E sarà possibile rinnovare il patto di fiducia fra gli azionisti di maggioranza? Il fatto nuovo, da valutare con molta prudenza in un contesto non favorevole, è che una curvatura data per irreversibile potrebbe tramutarsi in reversibile. Non era scontata la spinta dal basso per sollecitare il capo del governo a restare. È qualcosa di inedito, questa sortita del Paese reale, una sorta di «maggioranza silenziosa». La società civile, nelle varie espressioni dei corpi intermedi, si ritrova unita e dimostra di avere la testa sulle spalle, comunque vada a finire. Lo fa con la coralità che esigono i tempi calamitosi, oltre la divisione dei partiti: 100 mila firme raccolte dal partito di Renzi, quasi duemila sindaci di centrosinistra e centrodestra, governatori di Regione. Più il Partito del Pil e il Partito della Solidarietà.

In sostanza quasi tutte le rappresentanze del Partito del Buonsenso. Un attestato di credibilità verso il capo del governo voluto da Mattarella, ma insieme anche la consapevolezza che non siamo più in mezzo al guado: annaspiamo oltre, prossimi al collasso. Si tratta di mettere in sicurezza il Paese e di riformarlo con le risorse dell’Europa: un cammino incompiuto. Un appello che può suonare come una censura verso una certa politica dei guastatori e i brandelli del sistema politico: il vuoto penumatico del «no», del tornaconto partitico come condotta ideologica. Si chiede una politica ragionevole, la politica del fare e si affidano le attese ad una personalità esterna alla politica e verso cui la definizione di tecnico o tecnocrate suonava, e suona, negativa. Certo, in qualche misura Draghi si ritrova vittima di un paradosso (qualcuno ha parlato di «orrore logico»), perché potrebbe essere visto come il comandante che abbandona la nave nel momento estremo, là dove la responsabilità a maglie larghe risiede in chi lo ha vissuto come un vincolo e non come un’opportunità, oppure in chi lo ritiene un «usurpatore». Però l’ex premier Monti ha colto un aspetto importante: fra Draghi - per la sua statura, per il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi, per le aspettative suscitate - e i cittadini s’è creato un «rapporto morale» che va onorato.

Il senso del dovere verso lo Stato e l’opinione pubblica è comunque una prova della verità per tutti: i grillini tanto per cominciare, la Lega che fatica a reggere il pressing sulle urne della Meloni, Forza Italia dai tratti enigmatici, lo stesso Pd che, pur avendo fornito totale copertura a Draghi, ha investito sul recupero dei pentastellati e ora non ha una carta di ricambio. Vedremo cosa succede, preparati pure al peggio, sapendo che questa è l’Italia politica che ci è data, in cui la realtà stride con ciò che dovrebbe essere razionale: 6 governi negli ultimi 9 anni, durata media di 18 mesi, record negativo in Europa. Davvero un Paese normale?

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