Quirinale: rinuncia prevista per Berlusconi, ma siamo ancora agli inizi

Il fatto era previsto: Berlusconi rinuncia a candidarsi al Quirinale, come ha scritto in un messaggio inviato al vertice di centrodestra di ieri sera. Alla vigilia di una settimana che determinerà il futuro del Paese, ha sciolto la riserva che teneva bloccata la tattica elettorale della coalizione. Via un ostacolo e un nome divisivo, ma siamo ancora agli inizi. Nel fare il «beau geste» in nome della «responsabilità nazionale», s’è arreso alla sfida dei numeri o comunque alla prospettiva di non poter contare sulla piena disponibilità degli alleati in termini di fedeltà assoluta. Un passo indietro, che intende sbarrare la strada a Draghi che vorrebbe ancora a palazzo Chigi: la prima impressione è che l’uomo di Arcore si sia allineato alle posizioni di Salvini, pienamente soddisfatto della decisione.

Il leader di Forza Italia resta comunque in mezzo al campo, dato che la coalizione di centrodestra proporrà un nome «in grado di raccogliere un consenso vasto in Parlamento»: anche questa opzione era nelle aspettative del capo della Lega. Berlusconi in queste settimane s’è preso lo spazio di manovra per stabilire i tempi ed essere lui a far partire il conto alla rovescia sul Colle, passando dai margini al centro della scena. Non può permettersi il lusso di consentire a Salvini l’esclusiva di dare le carte, semmai vorrebbe passare per un ricostruttore: quando sapremo il nome del candidato, o candidata, si potrà capire meglio a che punto è la contesa per la leadership nella metà campo dove finora se la sono giocata Salvini e Giorgia Meloni.

Vediamo il contesto della corsa al Colle. L’elezione del Capo dello Stato è il rito più alto della Repubblica, l’occasione per riconoscersi in un comune interesse nazionale. Lo è soprattutto per un Paese che continua a soffrire per il Covid e per un’economia da ricostruire. A maggior ragione diventa indispensabile preservare quel patrimonio accumulato in questi mesi attraverso l’azione congiunta di Mattarella al Quirinale e di Draghi a palazzo Chigi. Non siamo più, grazie al sacrificio di tutti, il «grande malato» d’Europa. I lavori però sono in corso, lunghi e difficili, mentre la cornice esterna (inflazione e tensione geopolitica alle porte di casa) è problematica. Alle forze politiche si chiedono buon senso e responsabilità: l’appello di sempre, il cui esito andrà verificato.

In tempi fuori dal comune anche l’elezione del presidente della Repubblica presenta aspetti non ordinari, se non eccezionali. Dal terremoto elettorale del 2018 il quadro è mutato: prima è scappato di mano, poi è stato ripreso, infine messo sotto tutela, o comunque disciplinato, dal «metodo Draghi», cioè dal governo di quasi unità nazionale. Il Parlamento – chiamato a scegliere il nuovo inquilino del Colle insieme con i delegati regionali – è un meticciato partitico, privo di una maggioranza riconoscibile, tentato dalla propria sopravvivenza. Nessuno è in grado di esercitare un diritto di prelazione sul Quirinale. Destra e sinistra all’incirca si equivalgono, un quasi pareggio che dovrebbe evitare prove muscolari. In mezzo, poi, c’è la palude dei senza casa, mai così tanti. Imprevedibili e difficilmente governabili in quella che è una partita che si consuma su più tavoli. La misura dell’ingovernabilità è semplificata dal caos che regna fra i grillini, divisi fra l’ala di Conte e quella di Di Maio, spaccati sul destino di Draghi. Il caso Fraccaro è indicativo di strappi fuori controllo.

Anche per questo, e non solo perché lo vuole il galateo istituzionale, è indispensabile trovare una personalità di garanzia che possiamo chiamare in tanti modi: super partes o istituzionale, dal curriculum adeguato, che conosca le regole costituzionali e le dinamiche politiche, non più al centro della battaglia partitica, capace di rappresentare l’unità nazionale. L’opzione numero uno, nonostante tutto, sembra tuttora quella di Draghi e sarebbe la prima volta di un passaggio diretto dalla guida del governo a quella della Repubblica. Già questo è un segno di tempi inediti e, nell’aprire problemi nuovi, porta dritti al nesso ineludibile fra il Colle e palazzo Chigi.

Non si risolve il rebus del primo se non si trova una soluzione al secondo. Il governo prossimo venturo è la pietra d’inciampo, il macigno sulla via del Quirinale. Paradossalmente la soluzione migliore, Draghi presidente della Repubblica, solleva al contempo una questione istituzionale molto delicata, il vero risvolto critico: nascono da qui le riserve che attraversano gli schieramenti sul futuro del presidente del Consiglio. Una delle ipotesi in campo vorrebbe un tecnico alla guida dell’esecutivo e quindi avremmo ai vertici delle istituzioni due non politici (Draghi ha indubbie qualità politiche ma è di estrazione non parlamentare).

E qui si aprirebbe una questione rilevante, che tocca nel profondo l’impianto della nostra Costituzione, fondata sulla Repubblica parlamentare, al punto di spingere il ministro leghista Giorgetti a parlare di «semipresidenzialismo di fatto».

Ieri la «Stampa» ha pubblicato un sondaggio in base al quale 7 italiani su 10 vorrebbero l’elezione diretta del presidente della Repubblica, assegnando il primo posto a Draghi. Anche una rilevazione pubblicata da «Repubblica» recentemente confermava questa tentazione presidenzialista.

Non nuova, a dire il vero. Il rischio in sostanza sarebbe l’ingresso surrettizio di un semipresidenzialismo alla francese a Costituzione invariata, dato che quello italiano è, e resta, un sistema parlamentare, per quanto le forze politiche siano poca cosa rispetto alla storica «Repubblica dei partiti».

Questo è un nodo serio da sciogliere, da discutere in modo trasparente, perché coinvolge il profilo della democrazia italiana e una certa idea della rappresentanza: un fardello in più, non in meno, sulla strada in salita verso il Colle più alto.

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