Bimbi in carcere,
danno da sanare

In Italia attualmente ci sono 29 bambini da zero a sei anni che non stanno crescendo tra le mura protettive di una casa, ma in un carcere, figli di donne che scontano una pena. Sono mamme che hanno rotto i rapporti con i parenti a cui potrebbero affidare la prole o che per scelta preferiscono tenere i piccoli con loro, in anni decisivi per la formazione del legame affettivo con i figli. Attualmente perché il numero dei bambini detenuti varia in continuazione: si è arrivati fino a un centinaio, a giugno erano invece 33 per poi scendere di poco per via del Covid che si è diffuso anche nelle celle. L’alternativa ai penitenziari sono gli Icam, gli Istituti a custodia attenuata. Ma le uniche differenze sono l’assenza delle sbarre alle finestre - per il resto vige il regime carcerario - e che i figli delle detenute possono avere al massimo 10 anni e frequentare scuole esterne.

Al ritorno dalle lezioni però non possono fermarsi a casa dei compagni e sono sempre seguiti da un’assistente, anche se non in divisa. Carla Garlatti, Garante nazionale per l’infanzia, già giudice minorile, ha toccato il nocciolo della questione: «È un fatto di uguaglianza sostanziale: ogni bambino deve poter partire dalle stesse condizioni degli altri. In un carcere non è possibile». Il senso comune potrebbe giudicare la situazione con cinismo: prima di commettere reati, le donne che hanno figli avrebbero dovuto pensarci. Ma il ministro della Giustizia Marta Cartabia rifiuta questa «lettura»: «I numeri dei bambini nelle carceri sono limitati, ma anche uno solo è troppo: perché infliggere la pena a un bimbo o a una bimba innocenti, la cui infanzia sarà segnata per sempre?». Gli effetti negativi sulla psiche e sulla crescita infatti sono dimostrati e possono essere anche pesanti.

Una proposta di legge langue in Commissione giustizia alla Camera: il primo firmatario è Paolo Siani (Pd): prevede il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere per donne incinte o con figli fino a 6 anni (salvo per esigenze di eccezionale rilevanza) e che la prima scelta del giudice non sia la detenzione ma una comunità protetta. In Italia però ce ne sono solo due, a Milano e a Roma. Nell’ultima legge di Bilancio sono stati stanziati finalmente 4,5 milioni per costruire case famiglia o comunità alloggio protette. Centinaia di migliaia di euro sono arrivati alle Regioni sempre per questo scopo. Cartabia ha assicurato: «Lavoriamo perché nessun bambino muova i suoi primi passi negli spazi angusti di un carcere o rappresenti il cielo con le grate alle finestre, come ho visto in alcuni disegni. Questo non ha nulla a che fare con la funzione rieducativa della pena di cui parla la nostra Costituzione». Già, la funzione rieducativa sempre dimenticata nel dibattito pubblico. Proprio in questi giorni la Procura di Torino, dopo un’inchiesta giornalistica de «La Stampa», ha aperto un’indagine sulle presunte «inumane e degradanti» condizioni in cui per periodi di tempo rilevanti sono stati obbligati decine di detenuti psichiatrici nel «Sestante», la sezione «osservazione e trattamento» dell’Istituto penitenziario «Lorusso e Cutugno» di Torino. Celle al freddo, water intasati, detenuti curati solo con psicofarmaci e senza assistenza di medici. Un giovane di 25 anni ha perso l’uso della parola per il terrore vissuto in quel luogo lugubre e di dolore solitario. È il carcere l’ambiente più idoneo per malati psichiatrici e tossicodipendenti o sono le comunità di cura?

Ma torniamo ai bambini. Nel fine agosto scorso una 23enne detenuta nella prigione di Rebibbia a Roma, ha partorito una bimba in cella di notte senza assistenza. Secondo il Codice di procedura penale per una donna in gravidanza non dovrebbe essere disposta la custodia cautelare in carcere, come invece è successo. Ma chi doveva firmare il documento per il differimento della pena e quindi il trasferimento in un ospedale era in ferie.

Ancora per il senso comune «chi sta in prigione sta bene, hanno anche il televisore». Non è così, soprattutto in molti istituti in edifici vecchi e sovraffollati. Come dice Monica Gallo, Garante dei detenuti a Torino, «il carcere è diventato un enorme contenitore di disagio sociale». C’è una neonata che quando imparerà a parlare potrà dire di essere nata a Rebibbia. Non se ne vergogni, la responsabilità non è sua.

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