Caso Lituania sui 20 anni nel Wto della Cina

Sono passati vent’anni da quel dicembre 2001 in cui la Cina fece il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), segnando un momento di svolta dell’economia globale. Storici ed economisti, oltre che migliaia di imprenditori (anche italiani), potranno elaborare con cognizione di causa un bilancio di quella scelta, fortemente voluta dalla classe dirigente occidentale di allora, sottolineandone luci e ombre. La cronaca internazionale di questi giorni, per certo, ci ricorda che da quando Pechino è stata accettata nel club planetario degli scambi regolamentati di beni e servizi, la politicizzazione del commercio mondiale non ha fatto che intensificarsi, assumendo forme nuove e non di rado insidiose.

Si prenda il caso delle forti tensioni tra Lituania e Cina, ora alla ribalta sulla stampa internazionale. L’ultimo capitolo della saga conflittuale tra i due Paesi è andato in scena a Pechino a metà dicembre: il personale diplomatico e lo staff lituani hanno infatti scelto di abbandonare la città (come aveva già fatto poco prima l’ambasciatore), dopo che le autorità locali hanno richiesto i documenti d’identità di tutti. Il motivo ufficiale sarebbe stata la volontà cinese di declassare lo status diplomatico dei lituani; tra questi ultimi, al di là dello sgarbo ricevuto, ha prevalso invece il timore per la sicurezza personale.

Per spiegare perché il colosso cinese (1,4 miliardi di abitanti e un Pil di circa 12.700 miliardi di euro) ce l’abbia con questo piccolo Paese europeo (2,5 milioni di abitanti e un Pil di circa 50 miliardi) si deve tornare a qualche mese fa. La scorsa primavera la Lituania ha deciso di abbandonare il forum «17+1» che riuniva 16 Stati dell’Europa centro-orientale e la Cina per discutere di investimenti della Nuova Via della Seta. Contemporaneamente il Parlamento del Paese baltico ha condannato il trattamento della minoranza uigura da parte delle autorità cinesi. La scorsa estate, infine, l’esecutivo lituano ha annunciato l’apertura nella capitale Vilnius di un ufficio di rappresentanza commerciale per Taiwan. Un tentativo di ampliare la propria rete di contatti economici, hanno spiegato le autorità, e di diversificare i contatti nell’Indo-Pacifico con Paesi democratici.

Piccolo dettaglio: la tradizione democratica di Taiwan è un nervo scoperto per la Repubblica Popolare Cinese che considera l’ex isola di Formosa – con i suoi 23 milioni di abitanti - come una «provincia ribelle» che dovrà tornare sotto l’egida del Partito Comunista Cinese quanto prima. (Solo una quindicina di Stati in tutto il mondo riconoscono ufficialmente Taiwan, tra questi c’è la Santa Sede che non a caso ha un rapporto tormentato con la Cina, come ricostruito di recente e con dovizia di dettagli da Matteo Matzuzzi nel libro «Il santo realismo», Luiss University Press).

La Lituania, chiamando Taiwan col suo vero nome e non limitandosi a nominare la capitale «Taipei» come fanno altri Paesi, ha suscitato l’ira di Pechino che si è spinta ben oltre le consuete rimostranze diplomatiche. A inizio dicembre, infatti, la Lituania sarebbe stata cancellata dai database doganali cinesi, rendendo impossibile l’export di merci e servizi dal Paese baltico. Non solo. Secondo Vilnius, Pechino avrebbe invitato le multinazionali dell’ex Impero Celeste a non fare più affari con soggetti lituani. Inoltre, come dimostrano le proteste ufficiali della Confindustria tedesca, il blocco all’export starebbe investendo anche un discreto numero di aziende europee che realizzano in Lituania componenti di prodotti da esportare.

Il Governo lituano finora ha tenuto il punto, coinvolgendo le autorità dell’Unione europea che hanno allertato – informalmente - il Wto. Tuttavia questo caso è esemplare di due enormi squilibri nell’economia mondiale. Uno sul piano dei valori: difficile giustificare una tale rappresaglia economica e diplomatica cinese a fronte di scelte democratiche e non violente di un altro Governo. L’altro squilibrio è sul piano degli strumenti: Pechino, grazie al ferreo controllo sulla propria economia nazionale, può colpire da un momento all’altro aziende e prodotti stranieri senza nemmeno approvare norme che regolino azioni simili. Le ritorsioni cinesi verso un Paese pur piccolo come la Lituania suonano dunque come un sinistro avvertimento per tutti, rispetto al quale i Paesi democratici non possono restare indifferenti.

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