Centro-destra ad alta tensione

Giorgia Meloni dice che «il nostro impegno è unire la nazione», e auguriamoci sia così nei fatti, perché il futuro governo non nasce in un clima ideale. Il successo elettorale, ottenuto secondo la formula del marciare divisi per colpire uniti, lasciava intendere che il centrodestra, per la responsabilità ricevuta, avrebbe fatto tesoro delle lezioni passate: mostrarsi compatto, superando antichi dissapori, tanto più che l’attuale maggioranza non ha alternative.

L’elezione di La Russa alla presidenza del Senato dice che le cose non stanno così: alleati sì, ma all’occorrenza fratelli-coltelli, distinti e distanti. Se gli interrogativi riguardano quale cultura di governo esprimerà il primo esecutivo di destra, se sarà all’altezza di un quadro da far tremare i polsi, ora la gestione del consenso nelle urne aggiunge la fragilità di un amalgama che si pensava collaudato e maturo se non altro in nome della conquista del potere. La coalizione, alla curva d’ingresso, ha sbandato, non riuscendo a mettersi d’accordo sul primo atto della legislatura, provocando così un cortocircuito fra cariche di garanzia (le presidenze di Senato e Camera) e composizione del governo.

Questo passaggio spiega bene il metodo, lo stile di Giorgia Meloni, che si può sintetizzare così: «Noi siamo noi». Il timbro della premier in pectore è un impasto di comunicazione generalmente controllata e soprattutto di piglio assertivo: più determinazione che mediazione, pochi margini per le rotondità e la diplomazia. È chiaro chi comanda, uno schema selettivo. Affermazione della propria leadership di coalizione a scapito di Berlusconi, quasi umiliato, e anche di Salvini, che però s’è riallineato venendo ricompensato. Il tempo del pragmatismo per ricucire ci sarà ma viene dopo, intanto lei chiarisce che è in grado di strappare. E così ai pizzini velenosi di Berlusconi rilancia con un «non sono ricattabile». Si cambia spartito dalle note forti, con Fratelli d’Italia e Lega che prendono tutto.

Le scelte identitarie, connotate su un piano ideologico divisivo, della seconda e terza carica dello Stato marcano il territorio della destra, ma sarà interesse anche della coalizione, che rappresenta pur sempre una minoranza di elettori, dialogare con tutto il Paese, includere e aprirsi. Anche perché se tocca alla leader della destra, come tutto lascia pensare, la sua forza elettorale è distante dal peso che ha nella società di mezzo, fra i corpi sociali e le organizzazioni d’interessi, che sono la spina dorsale del Paese. Squilibrio fra sostegno nelle urne e peso specifico nei mondi vitali dei territori, oltre all’atmosfera psicologica collettiva sotto stress da choc senza fine, dovrebbero suggerire un approccio moderato, non radicale.

Lo conferma pure l’avventata manovra di questi giorni del governo conservatore inglese, oltre a ricordare i guai di un thatcherismo fuori tempo massimo. Governare, specie dopo Draghi, non è come vincere alla lotteria elettorale, si sa. La nuova compagine di governo, che può contare in caso di bisogno sulla manina e sulla stampella di un pezzo dell’opposizione, incontrerà inevitabilmente qualche vecchia conoscenza in casa: il fuoco amico.

La gerarchia nel centrodestra è stata ribaltata dopo 20 anni di egemonia berlusconiana e 4 di sostanziale e tormentata leadership salviniana. Il capo della Lega, sganciandosi da Berlusconi e avvicinandosi a Meloni, ha recuperato un suo spazio, limitando i danni della sconfitta elettorale, e forse qualcosa di più: deve fare certo buon viso a cattiva sorte (Giorgetti indicato all’Economia), tuttavia dispone di una rappresentanza parlamentare più ampia di quanto ha preso nelle urne, ha piazzato un suo discusso fedelissimo, il veneto Fontana presidente della Camera, lanciando quindi un segnale a Zaia e, pur non andando al Viminale, avrà una postazione ministeriale insieme alla sua squadra. Gli basterà, sarà un uomo pacificato? Difficile pensare che l’offensiva contro Berlusconi, messo con le spalle al muro il giorno del suo rientro in Parlamento, e il tentativo di spartirsi quel che resta di Fi siano a costo zero.

Se Meloni punta a spaccare Fi, già divisa fra l’ala romana e quella del Nord, ristrutturando la coalizione per spostarla tutta a destra, rischia di essere un azzardo per almeno due motivi. Il primo è che il signore di Arcore ha saputo svolgere il ruolo di federatore del centrodestra e su questo versante Meloni andrà verificata. Secondo, perché, in quanto terminale in Italia dei Popolari europei, è pur sempre un garante internazionale per la destra sovranista e il suo contrappeso moderato. Può essere un valore aggiunto anche per quel mondo imprenditoriale che lo ha abbandonato. Quanto alle opposizioni, il fronte comune non è pervenuto. Conte sembra tentato dall’Opa ostile contro il Pd, Renzi si segnala per il suo presumibile movimentismo parlamentare di frontiera, Calenda dovrebbe riflettere sull’idea che correre da solo ha favorito la destra, i dem sono il «grande malato» sotto cura. Ma i tempi lunghi da qui al congresso post Letta di marzo li lasciano nel limbo, non consentono di far chiarezza sulla linea politica e non corrispondono alla gravità del momento. Una situazione complessiva del Paese che, comunque la si valuti, impone di allacciare le cinture di sicurezza.

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