Colloqui senza uscita e la tragedia aumenta

C’è un nesso preciso tra il bombardamento russo dell’ospedale di Mariupol’ e il fallimento annunciato dell’incontro tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il suo omologo ucraino Kuleba. Non di causa ed effetto ma di reciproco accompagnamento. A proposito di Mariupol’ si scontrano due versioni. Quella degli ucraini, che denunciano un crudele e indiscriminato attacco a una struttura civile, per di più fatta per accogliere persone sofferenti.

I russi rispondono dicendo che l’ospedale era stato trasformato in una base del Battaglione Azov, una delle più combattive formazioni dell’estrema destra nazionalista affiliate alle forze armate di Kiev. È difficile (ma sarebbe più corretto dire impossibile) stabilire chi dica il vero e chi il falso. Questa è anche una guerra di comunicazione e propaganda, quel che sappiamo è solo che gli ucraini spesso usano gli edifici civili per ripararsi e spostarsi e che i russi spesso prima sparano e poi guardano.

Sappiamo però anche un’altra cosa: episodi come quello dell’ospedale di Mariupol’ diventeranno presto lo scenario tipico di questa guerra se le occasioni di trattativa continueranno a fallire come ieri ad Antalya. I temi in discussione sono noti, sono sul tavolo da anni. Da parte russa: la neutralità dell’Ucraina, il non ingresso nella Nato, la cessione della Crimea, l’indipendenza del Donbass. Da parte ucraina: garanzie di sicurezza rispetto all’imperialismo russo, ritiro completo e totale, restituzione del Donbass, riparazione dei danni di guerra. Si sa che su alcuni aspetti non c’è possibilità di intesa. Ma il fatto che non si faccia un solo passo avanti, nemmeno per un’umana e ordinata gestione dei corridoi umanitari, dimostra che nessuna delle due parti punta davvero sulla trattativa.

Ucraini e russi, invece, speculano sul tempo. Mosca pensa che l’avversario prima o poi cederà, visto che, pur difendendosi con valore, sta perdendo gli impianti industriali, le centrali nucleari, forse presto anche i porti, subisce danni enormi e di certo anche notevoli perdite umane. La stampa occidentale ha deciso di non parlarne ma non possono morire solo i soldati russi. Kiev, al contrario, è convinta che prima o poi l’ostilità del mondo, il peso delle sanzioni sull’economia e delle perdite sul morale costringerà i russi a più miti consigli. Anche perché, nel frattempo, armi e aiuti continuano ad affluire in Ucraina da mezzo mondo.

Ma anche questa guerra, come tutte le guerre, più va avanti e più si incattivisce, si incarognisce. I combattenti tendono a perdere molti freni, quel tempo che per i politici è un’arma per i militari è un incubo, vuol dire più fatiche, più distruzioni, più rischi, più morti, più compagni che mancano all’appello. E la tentazione di forzare la mano cresce. Quel che dobbiamo attenderci, quindi, è un inasprimento dei combattimenti e, con ogni probabilità, una stretta ulteriore su Kiev, che il presidente Zelensky ha tramutato, almeno agli occhi dell’opinione pubblica internazionale che condanna l’aggressione russa, in una specie di Stalingrado ucraina. Le forze armate russe si sono avvicinate alla capitale badando più a consolidare le posizioni che ad attaccare, lasciando ai missili e agli aerei il compito di saggiare le difese e intimorire la popolazione. La città è stremata, almeno due dei suoi tre milioni di abitanti se ne sono andati, i rifornimenti diventano sempre più difficoltosi, chi è rimasto si appresta a correre sulle barricate.

Può essere giunto il momento dell’attacco? Il Cremlino potrebbe essere indotto a tentare di forzare la mano colpendo la capitale e, simbolicamente, il cuore dell’orgoglio nazionale ucraino? Lo temiamo, perché lo scenario sarebbe quello prima descritto. Nessun generale può pensare di espugnare una città tanto enorme combattendo casa per casa, a meno di non mettere in preventivo innumerevoli perdite. Più facile decidere di batterla a tappeto con i missili e l’artiglieria per indurre i difensori alla resa o alla fuga, al prezzo però di una strage di civili. Forse non sarà per domani o dopo domani. Ma a ogni round negoziale che fallisce, come quello di Antalya o ancor prima i tre in Bielorussia, il momento di una simile tragedia diventa più probabile e vicino.

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