
(Foto di Ansa)
MONDO. Nei Governi di coalizione può essere normale, particolarmente in Italia, la differenza di posizioni.
Ma se si è al Governo c’è sempre una linea rossa da non varcare, ed è l’interesse nazionale, certo superiore al fastidio tattico che si può procurare ad un alleato, per strappargli un voto in più. C’è da chiedersi se nella vicenda attualissima dei tassi questa linea rossa sia stata già varcata, da parte della Lega, che sta calpestando - nella delicata fase attuale del confronto attorno al 30% proclamato da Trump - il merito e il metodo della questione commerciale.
Il merito è che la materia è di stretta competenza della Commissione di Bruxelles, non dei singoli Stati (ignorarlo fa confusione) e il metodo non può essere né l’insulto permanente alle funzioni negoziali dell’Unione e alla sua stessa esistenza, né l’invocazione di una soluzione bilaterale. Quest’ultima vorrebbe dire uscire dall’Europa su un punto fondamentale. Un Italexit. Matteo Salvini non vuole certo arrivarci (perdendo la comodità di governare dopo averlo fatto persino con Conte), anche se gli piacerebbe, ma il bluff funziona sul solito terreno della propaganda e ciò è sufficiente. Per lui, ma non per il Paese.
La linea rossa di cui parliamo è quella della serietà, del punto di equilibrio che in democrazia va sempre salvaguardato. Finché si scherza, cioè si toccano temi caldi ma minori, va tutto bene ma sulle cose importanti davvero ci vorrebbe un altolà. Non sempre, come sull’immigrazione, può darlo la magistratura, e non sempre è giusto che intervenga Mattarella in modo sempre più frequente.
Dato che il flebile Tajani in questi casi risponde che la coalizione non è una caserma (ma non può essere neppure il luogo del relativismo, perché diseducativo), pesa tutto su Giorgia Meloni il compito di smussare e far finta di niente. Può essere una soluzione, perché il risultato di queste sparate è la continua inesorabile perdita di credibilità della Lega, scivolata persino dietro Forza Italia senza Berlusconi.
Ma l’opinione pubblica deve pur registrare un fatto grave. Dobbiamo essere un Paese serio, almeno sul piano internazionale. La tanto elogiata stabilità di questo Governo non può basarsi sul far finta di niente. Ci sono doveri da rispettare, persino per l’opposizione, perché riguardano tutti. Le ultime uscite del vicepresidente del Consiglio sono efficaci per i tg serali, ma contro l’interesse nazionale: «La Ue non rompa le scatole all’Italia su balneari, spiagge, motorini, autoelettriche e banche. Il sistema bancario e creditizio è un asset strategico (anche quando mette il golden power sulla relazione tra due istituti italiani?)… l’Italia può normare come ritiene senza che da Bruxelles nessuno si permetta di intervenire». Non è cosi. In poche righe, c’è il rovesciamento di Trattati e accordi che risalgono ad un progetto sacrosanto andato avanti dagli anni ’60, ma tutto sommato si contraddice soprattutto lo sforzo che il Governo Meloni ha fatto negli ultimi anni per uscire dal vicolo in cui tanti prevedevano che fosse rinchiuso il sovranismo e il nazionalismo con cui si erano vinte le elezioni.
Bruxelles non rompe le scatole, Bruxelles siamo anche noi (c’è Fitto lassù) e svolge la funzione che gli attuali 27 e coloro che li hanno preceduti gli hanno assegnato. Se i Trump, i Putin e i Farage piacciono tanto come portatori di politica che non si fa rompere le scatole, si dica la verità, e cioè che si vuole un’Italia di modello ungherese, compresi però i diritti e le libertà calpestate. Sarebbe sbagliato «perdonare» questi eccessi ad un leader in evidente difficoltà. Vanno segnalati, libero ciascuno di interpretarli ed accettarli.
Ma dobbiamo star bene attenti. La partita sui dazi si può perdere, ma una cosa è certa, la perdita di autonomia: se ci mettiamo sulla strada dei Borghi e Bagnai che ogni sera auspicano trattative bilaterali, il nostro Prosecco batterà lo Champagne, ma poi ci sarà poco da brindare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA