Delocalizzazioni, su industria e lavoro
riporre le bandiere

A luglio, ha fatto sapere ieri l’Istat, c’è stato un «calo contenuto» del numero di occupati rispetto al mese precedente. La diminuzione di 23mila posti è stata determinata solo dai lavoratori autonomi (47mila in meno), mentre i lavoratori dipendenti sono aumentati di 24mila unità. Il mercato del lavoro pare sostanzialmente fermo, e stavolta questo dovrebbe fare notizia, visto che luglio è il primo mese successivo alla fine del blocco dei licenziamenti imposto dal Governo all’industria causa pandemia. Niente licenziamenti di massa, come temeva qualcuno, anzi i dipendenti sono aumentati. Emergenza lavoro finita, dunque? Tutt’altro. Non solo perché l’aggiustamento post-pandemia potrebbe essere ancora di là da venire, ma anche perché in Italia ci sono ancora 260mila lavoratori in meno rispetto all’epoca pre-Covid.

Al di là del giudizio sullo stato di salute dell’economia, comunque, il fatto che i lavoratori dipendenti a luglio siano aumentati, invece di diminuire drasticamente, racchiude un insegnamento di «metodo» per politici, sindacati, associazioni datoriali e commentatori. Per settimane, fino a quando il Governo ha deciso di eliminare il blocco dei licenziamenti, il dibattito pubblico è stato monopolizzato da una sorta di «scontro di civiltà» attorno al lavoro in fabbrica. Chi chiedeva a gran voce di prolungare il blocco per tutta l’industria prevedeva un boom di espulsioni di lavoratori dalle fabbriche, dipingendo di fatto come «nemico del popolo» chiunque fosse favorevole a un graduale ritorno alla normalità. In un simile dibattito, non valevano più le leggi dell’economia o le esperienze di altri Paesi europei che il blocco dei licenziamenti non l’hanno mai introdotto. Presi come eravamo dalla lotta attorno a un totem, calava l’attenzione di noi tutti per i posti di lavoro che in Italia comunque erano andati in fumo, tra mancati rinnovi e assunzioni, o per un sistema fallimentare di politiche attive del lavoro.

Sulle delocalizzazioni, corriamo il rischio di assistere di nuovo allo stesso film. Come noto, nell’esecutivo si lavora a un decreto-legge per limitare il fenomeno dello spostamento di impianti industriali dall’Italia verso altri Paesi in cui la manodopera è a più buon mercato. L’idea circolata finora, soprattutto al Ministero del Lavoro, è quella di imporre alcuni oneri aggiuntivi (ed eventuali sanzioni in caso di mancato rispetto delle norme) per quelle imprese con almeno 250 dipendenti a tempo indeterminato che intendano procedere alla chiusura di un sito produttivo in territorio nazionale. Recenti casi di cronaca, con il licenziamento senza preavviso da parte di una multinazionale straniera di decine di lavoratori tramite una comunicazione via Pec, o con la cessazione di rapporti di lavoro decisa dopo aver incassato lauti finanziamenti e incentivi pubblici, meritano sicuramente un più attento scrutinio da parte delle autorità.

Allo stesso tempo è lodevole che alcuni dicasteri riflettano su come controllare meglio i criteri con cui concedono ai privati fondi dello Stato. Tuttavia ci vuole cautela per evitare che norme difficilmente applicabili alle grandi multinazionali finiscano invece per gravare su medie aziende magari costrette a chiudere una fabbrica in un Paese in nome della sopravvivenza del gruppo. Inoltre, assumere un approccio punitivo nei confronti degli imprenditori, ideologicamente dipinti come «presunti colpevoli» di voler aprire filiali di aziende per poi chiuderle, farebbe danni incalcolabili alla nostra economia. Senza ricominciare la danza delle contrapposte ideologie, meglio sarebbe discutere e riflettere tutti per rispondere a una sola domanda: come attirare in Italia più imprese (alias: delocalizzazioni) da altri Paesi?

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