Diplomazia e veleni: ma la rotta è segnata

L’avvelenamento, o presunto tale, del miliardario Roman Abramovich ha rubato la scena al dramma dell’Ucraina. Intanto perché sempre di una celebrity si tratta. E poi perché l’oligarca, già fiduciario della famiglia Eltsin, già governatore della Ciukotka (per otto anni, i primi dell’era Putin) e fresco ex proprietario del Chelsea, secondo molte fonti sta facendo da mediatore tra il presidente ucraino Zelensky e quello russo Putin. Un ruolo che parrebbe confermato dal singolare appello che qualche giorno fa Zelensky ha rivolto allo stesso Joe Biden, chiedendogli di non sanzionare il riccone pacificatore.

Con il riflesso automatico maturato per i casi Litvinenko (avvelenato con il polonio nel 2006), Skripal’ (come Litvinenko un ex agente del Kgb passato all’Occidente, avvelenato con il noviciok nel 2018) e Navalny (anche lui con il noviciok nel 2020), da noi si è subito cominciato a sospettare (eufemismo) dei russi. Non si capisce bene, però, quale interesse avrebbe il Cremlino nel colpire un mediatore che, com’è evidente, era gradito anche a Mosca, altrimenti non avrebbe potuto mediare un bel nulla. Però siamo alla vigilia di una nuova tornata di incontri tra la delegazione russa e quella ucraina, questa volta di persona e a Istanbul, il che rende la storia di Abramovich ancor più ghiotta e misteriosa.

Sarebbe interessante sapere di che cosa riescono a discutere, a questo punto delle operazioni, i delegati dell’una e dell’altra parte. Pare evidente quale sia il piano dei russi: spaccare in due l’Ucraina, con Mosca a esercitare un controllo diretto (occhio all’idea di Leonid Pasechnik, presidente della cosiddetta Repubblica di Lugansk, che vuole tenere un referendum per l’adesione della Repubblica alla Federazione russa) o indiretto (su uno Staterello nuovo di zecca, una specie di Donbass ipertrofico) sulla parte a Est del fiume Dnepr, quella più ricca di risorse e di infrastrutture (porti, centrali atomiche, hub ferroviari). Due ucraine come le due Coree, più o meno. Per questo l’esercito russo spinge così tanto al Sud (Mariupol’) e al Nord (Khar’kiv).

Per l’Ucraina, dall’inizio dell’invasione, è invece decisivo tenere Kiev e la regione, perché solo resistendo lì può sperare di sedere a un eventuale tavolo della pace con buoni argomenti. È per questo, e non per straordinarie strategie, che i russi avanzano a Sud e si ritirano dal centro-Nord, e viceversa parlando degli ucraini.

Mentre i combattenti sono impegnati a guadagnare più terreno possibile laddove a ognuno più interessa farlo, riesce difficile immaginare su quale base le delegazioni convenute a Istanbul possano decidere non si dice una tregua, ma almeno un cessate il fuoco.

Continua, intanto, il dramma dei civili. Si combatte in città grandi come Mariupol’ (500 mila abitanti) o Khar’kiv (secondo centro dopo la capitale Kiev, 1,5 milioni di abitanti). La stessa Irpin’, che nessuno fino a due settimane fa aveva sentito nominare, conta 80 mila abitanti. E per quanto l’esodo di rifugiati e profughi le abbia in parte svuotate, la strage è inevitabile. La Rete abbonda di filmati, soprattutto da Mariupol’, in cui si vedono i carri armati che sparano contro i palazzi, le mitragliatrici pesanti che sparano da una casa all’altra, i missili che piombano sulle strade. I bilanci di questi giorni, inquinati dalle propagande e dalla scarsità di testimonianze dirette e oggettive, sono poco affidabili. Purtroppo verrà il momento di aggiornarli, e sarà solo per scoprirli ancor più terrificanti.

Intanto il Cremlino continua a cercare di tappare le falle aperte nella società dalla guerra e nell’economia dalle sanzioni. La stretta sull’informazione è ormai totale, tanto che la Novaja Gazeta, diretta dal premio Nobel Muratov, stanca di rischiare la chiusura d’imperio, ha deciso di sospendere volontariamente le pubblicazioni fino alla fine della «operazione speciale» voluta da Putin. Sull’altro lato, il rublo si apprezza (ce ne vogliono 92 per un dollaro, erano 140 subito dopo l’inizio del conflitto) grazie al sostegno delle riserve della Banca Centrale di Russia e al flusso di denaro fresco portato dall’export di gas e petrolio. A proposito: Putin dice che da fine marzo i «Paesi ostili», categoria che include quelli Ue, dovranno pagare le forniture in rubli. Sono già partiti molti no, ma il Cremlino ha fatto sapere di non avere intenzione di fornire gratis il prezioso gas. Un altro braccio di ferro, chi cederà?

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