Elezioni in Libia,
il no è lo specchio del Paese

Dovevano essere un banco di prova dei progressi compiuti dal Paese dopo anni di guerra e di faide, di conferenze internazionali e di promesse, di aiuti economici e di speranza. Le prime elezioni democratiche della Libia, previste per il prossimo 24 dicembre, rischiano fortemente di essere rimandate o perfino annullate a causa dei dissidi giudiziari tra i candidati, tra le fazioni e le forze politiche che li rappresentano. La data del voto per nominare il nuovo presidente e il governo dopo quello ad interim, ma anche il Parlamento, era stata fissata dopo contrattazioni a livello internazionale, fra le quali la conferenza Onu in Tunisia. La commissione elettorale non ha ancora approvato la lista definitiva dei partecipanti, ufficialmente perché non è in grado di «dirimere tutte le questioni giudiziarie per assicurarsi che la sua decisione sia in linea con le sentenze dei tribunali». Per accedere alle urne si sono registrati quasi tre milioni di libici (su 6 milioni e 800 mila). La voglia di partecipazione e il sostegno popolare al voto non mancano quindi, a contrastare stanchezza per il conflitto, povertà e tensioni sociali.

Ma il nodo sono i candidati: quasi 100 per le presidenziali e i più importanti hanno tratti controversi se non preoccupanti. C’è Abdul Hamid Dbeibah, primo ministro ad interim, che quando fu nominato con l’avallo della comunità internazionale promise che non avrebbe partecipato alle elezioni. Poi ha cambiato idea e per essere ammesso ha fatto ricorso (e vinto) in tribunale. La commissione elettorale ha accettato la sua candidatura, ma vari suoi rivali hanno fatto a loro volta ricorso. In lizza pure il maresciallo Khalifa Haftar, già a capo dell’esercito che aveva assediato per mesi la capitale Tripoli nel tentativo di conquistare tutto il Paese, e non solo la Cirenaica e il Fezzan dove spadroneggia. Dopo la sconfitta militare, ora tenta di arrivare al potere per via politica. Spicca poi il nome di Saif Gheddafi, figlio del dittatore ucciso nel 2011 Muammar Gheddafi, che nel 2015 fu giudicato colpevole di crimini di guerra e condannato a morte ma aveva poi ricevuto l’amnistia. Inizialmente la commissione elettorale aveva rifiutato la sua candidatura, ma dopo il ricorso in tribunale del figlio dell’ex raìs, è stata ammessa.

Lontano dall’essere un passaggio di pacificazione, il voto rischia quindi di diventare la miccia di nuovi scontri qualora l’esito, come probabile, venisse contestato da una delle parti in causa (ciascuno dei candidati più forti è a capo di ampie fazioni, a cui rispondono anche una o più milizie armate). La comunità internazionale avrebbe dovuto probabilmente ribaltare il percorso: prima un processo di pacificazione nei tempi necessari e poi le elezioni. L’annullamento rappresenterebbe lo specchio della situazione del Paese.

Richard Norland, ex ambasciatore americano in Libia, ha detto al «Guardian» che stanno avendo la meglio «quelli che preferiscono il potere delle pallottole al potere delle urne». E sono ancora presenti migliaia di soldati turchi, o miliziani siriani filo-turchi reclutati nel Nord della Siria, che erano andati a combattere a fianco del governo di Tripoli. Pesano poi altre influenze esterne, dall’Egitto agli Emirati Arabi al Qatar.

La gravità della crisi è certificata da un altro fatto: Jan Kubis, inviato speciale dell’Onu per la Libia, si è dimesso a fine novembre dopo meno di un anno in carica, sostituito dall’americana Stephanie Williams. La «quarta sponda» poi è tornata il principale Paese di partenza, prima della Tunisia, dei migranti diretti in Italia, nonostante finanziamenti per 750 milioni di euro in tre anni dal nostro governo per fermare gli irregolari e i brutali metodi di Tripoli per raggiungere lo scopo. La politica internazionale verso la Libia andrebbe quantomeno rivista.

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