Eutanasia e aborto
Meglio riflettere

È più urgente una legge per depenalizzare l’eutanasia, l’omicidio del consenziente, oppure educare alla responsabilità e al senso della sofferenza e della morte? Le reazioni suscitate dalle parole di Papa Francesco su eutanasia e aborto pronunciate ai componenti la Pontificia Accademia per la Vita non possono che indicare quanto sia impellente la necessità di una riflessione seria e intellettualmente onesta sulla «cultura dello scarto» e «l’eutanasia nascosta» denunciate dal pontefice. La prima a scapito «dei bambini che non vogliamo ricevere», «rimandati al mittente e uccisi» grazie alla legge sull’aborto, la seconda rivolta verso gli anziani, «materiale di scarto che non serve».

Il passato e il futuro di una società incredibilmente destinati a rinnegare la speranza: «La speranza dei bimbi che ci portano la vita che ci fa andare avanti e la speranza che è nelle radici che ci danno gli anziani. Scartiamo ambedue. E poi - aggiunge - quello scarto di tutti i giorni, che è la “vita scartata”. Stiamo attenti a questa cultura». Il problema - ammonisce il Papa - non è una legge o un’altra, il problema è lo scarto: «E sulla strada dello scarto noi non possiamo permetterci di andare». Parole chiare, nette, che richiamano quanto Francesco aveva già detto in aereo rientrando dal Viaggio apostolico in Ungheria e Slovacchia, ma che anche allora non erano riuscite a far breccia nei media di mezzo mondo, più interessati ai porporati «No vax» all’interno del Collegio cardinalizio che alle riflessioni del pontefice su aborto, matrimoni gay, Europa senza più sogni e radici cristiane.

Anche la classe politica, prima ancora di rivendicare la necessità di un provvedimento per legalizzare l’eutanasia, dovrebbe (ri)leggersi alcune tra le riflessioni che cattolici e laici hanno elaborato in questi anni. Non è sufficiente rivendicare la laicità dello Stato per escludere a priori dalla discussione le tesi cattoliche sull’interruzione volontaria della vita. Già nel maggio del 1980, la Congregazione per la dottrina della fede ribadiva «che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato, incurabile o agonizzante»; che «nessuno può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente»; che «nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo» perché si tratta di «un’offesa alla dignità della persona, di un crimine contro la vita». Più di quarant’anni dopo, la forza morale di quei concetti resta sostanzialmente immutata. Concetti che devono far breccia non perché «trasmessi» dalla Chiesa, ma perché guardano alla persona nella sua interezza, riconoscendole tutta la dignità di cui ha diritto, e che invece la nostra società vuole continuamente sottrarle, negando sempre e comunque la dura realtà della malattia, della sofferenza, della morte, nonché gli insegnamenti che da questi aspetti di vita l’uomo può trarre.

La Chiesa rifiuta un cristianesimo che riduce il dolore a pura sofferenza, tanto che ritiene lecito «nell’imminenza di una morte inevitabile, nonostante i mezzi usati, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Un atteggiamento di grande apertura che molti ignorano volutamente per non riconoscerne il valore. Perché? Perché - come aveva già osservato il filosofo Mauro Ceruti, teorico del pensiero complesso tra i più raffinati - viviamo in una società che sta dando segnali di pulsione di morte, se non addirittura di pulsione suicida a tutti i livelli, da quelli individuali e familiari a quelli della macrosocietà. Una società che cerca artificialmente di produrre vita e di selezionare vita efficiente fin dall’embrione, «giustificando un’ideologia efficientistica per definire ciò che è vivibile, ma che, alla fine, è un’ideologia di morte».

Oggi, ormai, le scienze biomediche, attraverso i loro indubitabili e straordinari successi, influenzano in modo nuovo la nostra nascita, la nostra vita, la nostra morte, eventi - invece - da sempre considerati naturali, e dove la politica non era mai entrata in modo tanto vistoso. Ora la politica è obbligata dalla scienza a prendere decisioni che riguardano la vita in tutti questi aspetti. Ma politica ed etica si trovano drammaticamente impreparate di fronte a queste novità, mentre sembra che l’unica a farsi trovare sempre pronta sia la scienza. Per questo gli scienziati vengono sempre più spesso considerati «i nuovi sacerdoti» a cui chiedere l’ultima parola.

Il dramma che la nostra società sta vivendo è che scienza e tecnologia stanno accumulando straordinari progressi ai quali, però, non corrisponde un analogo progresso sia della cultura umana (servirebbe un nuovo Umanesimo all’interno del quale interpretare le nuove possibilità della scienza), sia di una coscienza morale. Il vero problema è che oggi noi non accettiamo più di morire. Sembra esserci una sorta di collusione profonda tra una medicina che si sente onnipotente e una cultura che si sente immortale o che aspira all’immortalità, liberandosi – nel contempo – delle persone più deboli e più fragili. Ma gli sforzi di una società civile devono spingersi oltre e analizzare il vero problema sul tappeto: l’accompagnamento del morente verso una «morte buona», alla vera eu-thanasia, e non a un «suicidio-omicidio buono». Oggi questo è possibile con la medicina palliativa, l’unica al fianco di chi soffre nell’attesa di una morte ineluttabile. Ma costa molto e non rende nulla, almeno in termini economici.

© RIPRODUZIONE RISERVATA