Governo, un risiko di poltrone per Giorgia

Tra meno di un mese, giorno più giorno meno, dovremmo avere un nuovo Governo. Un governo guidato da Giorgia Meloni, come dice il responso elettorale che ha avuto in lei la vera vincitrice, accanto ai suoi due alleati la cui somma dei voti è largamente al di sotto di quelli raccolti da Fratelli d’Italia. Dunque nessuna incertezza può esserci sul fatto che sia proprio Meloni colei cui il presidente Mattarella affiderà l’incarico di formare il nuovo Governo, appunto.

Lei, la protagonista di questa legislatura che si apre, parla poco, lavora molto nella riservatezza, fa trapelare pochissimo delle sue intenzioni se non per smentire ufficialmente retroscena giornalistici che, come sempre, più sono smentiti, più appaiono verosimili. Di sicuro lo sono quelli che ci raccontano ogni giorno di come la composizione del puzzle ministeriale di Fratelli d’Italia con la Lega e Forza Italia sia complicata, molto complicata.

Lo avevamo scritto, del resto, su queste colonne, alla vigilia del voto: se il voto punirà Salvini e Berlusconi, il risultato sarà di infragilire l’intera coalizione. Gli Italiani in realtà sono stati avari con il primo e magnanimi col secondo, che «ha tenuto», come si dice in gergo, raggiungendo un otto per cento che non era nemmeno nei più rosei sogni della signora Ghisleri. Salvini in queste condizioni non può accettare una composizione del governo che suoni come un suo ridimensionamento politico oltre che elettorale: sarebbe il via libera a quanti nella Lega ritengono il segretario responsabile della perdita di milioni di voti rispetto al 2018 (per non parlare delle europee) ma non trovano il modo di manifestare il loro dissenso – per questo sembra ci stia pensando il vecchio Umberto Bossi, con la sua rinata «corrente del Nord». Dunque Salvini vuole i suoi ministeri e continua ad insistere sulla sua personale richiesta di tornare al Viminale nonostante che tutto e tutti gli dicano che la strada verso il ministero dell’Interno per lui è sbarrata, e per varie non secondarie ragioni. Oggi si terrà un consiglio federale in cui il leader leghista detterà le sue condizioni all’alleata-premier. Stesso atteggiamento è quello di Berlusconi il quale, rianimato dal voto, comincia anche lui ad avanzare richieste sia in termini di numeri (di ministeri) sia di nomi.

È chiaro che Salvini e Berlusconi vogliono un governo politico-politico, anche nei ministeri-chiave, quelli più delicati, quelli per i quali la prassi mai codificata vuole che ci sia il via libera del Quirinale: Interni, Esteri, Difesa, Economia. Il problema è che Giorgia Meloni sembrerebbe invece più propensa ad un governo tecnico-politico che, con l’ingresso di persone esperte, competenti nella loro area, autorevoli e conosciute nelle più varie sedi internazionali, diano al governo italiano di centrodestra quel lustro di cui in partenza non dispone, a giudicare dalla diffidenza con cui il risultato elettorale è stato accolto in Europa (meno negli Stati Uniti, e questo sicuramente per l’abile azione di immagine e di rapporti curata dalla candidata premier negli ultimi anni). Sottrarre agli esponenti politici, capicorrente, fedelissimi dei leader i ministeri più importanti in nome del prestigio dell’esecutivo risulta dunque in questo momento il focus dello scontro politico della maggioranza che ha vinto le elezioni.

Non serve nemmeno ricordare l’elenco lunghissimo delle emergenze che ci stanno tormentando e che ci promettono un autunno su cui, per dirla con i capi dell’Eni, «è difficile essere ottimisti». Il punto vero è che serve essere all’altezza di questi enormi problemi che possono travolgere strati sociali vastissimi, e non più soltanto quelli dei «più deboli». Che poi all’altezza sia un politico o un tecnico, da un certo punto di vista, poco conta. Quello che si chiede a chi ha vinto le elezioni è di governare bene e con le migliori risorse di cui dispone. Se ne dispone.

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