I giornalisti nel mirino: le parole da pesare

ITALIA. Nella classifica della libertà di informazione nel mondo, l’Italia è al 49° posto, scesa di tre posizioni rispetto al 2024, la più bassa per gli Stati dell’Europa occidentale.

Nel nostro Paese questa libertà fondamentale «continua a essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, in particolare nel Sud del Paese, nonché da diversi piccoli gruppi estremisti violenti», denuncia «Repoter senza frontiere», che ogni anno redige la graduatoria.

La trasmissione della Rai da 30 anni è autrice di inchieste su temi scottanti, incassando plausi ma anche minacce.

Al risultato non edificante concorre anche l’alto numero di querele temerarie contro cronisti intentate soprattutto da politici e l’essere l’unico Stato democratico che prev ede la carcerazione per il reato di diffamazione grave. A conferma dei pericoli che possono correre i giornalisti italiani, venerdì scorso un attacco grave: l’ordigno esploso a Pomezia davanti alla casa del conduttore di «Report» Sigfrido Ranucci, al quale è stata rafforzata la scorta. La trasmissione della Rai da 30 anni è autrice di inchieste su temi scottanti, incassando plausi ma anche minacce. Sono una trentina i cronisti del nostro Paese protetti dalle forze dell’ordine e 250 sotto vigilanza perché scrivono e raccontano di mafie, criminalità organizzata e intrecci con diversi poteri.

Ma si può far male alla libertà di informazione anche con le parole utilizzate come oggetti contundenti. Lo scrittore Nicolai Lilin, originario della Repubblica separatista moldava della Transnistria, assurto nei talk show ad esperto del conflitto in Ucraina e candidato in Italia alle scorse elezioni europee per «Potere al popolo», è stato rinviato a giudizio dai pm della Procura di Milano per minacce a due giornalisti. Nell’agosto 2024 aveva pronunciato queste

Sono una trentina i cronisti del nostro Paese protetti dalle forze dell’ordine e 250 sotto vigilanza perché scrivono e raccontano di mafie, criminalità organizzata e intrecci con diversi poteri.

parole sul proprio canale YouTube: «Se un giorno vi troverete un po’ di polonio nel tè, sappiate che vi siete scavati la fossa da soli. A questi due (...) nostri giornalisti Rai che sono andati lì con i terroristi e che hanno fatto questo schifoso lavoro di propaganda filonazista il mio augurio è di stare molto attenti, non accettate il tè dalla gente sconosciuta». Un testo delirante rivolto all’inviata della Rai Stefania Battistini e al suo cineoperatore Simone Traini, che qualche giorno prima di diventare oggetto del veleno dell’«esperto» di geopolitica, erano riusciti a documentare un’incursione dei soldati di Kiev nell’oblast russo di Kursk, al confine con l’Ucraina. Il reportage aveva suscitato le ire di Mosca: un Tribunale distrettuale spiccò il mandato d’arresto internazionale per essere «entrati illegalmente nella Federazione Russa» (cinque anni la pena prevista), che tutt’oggi insegue i due giornalisti sotto scorta.

La violenza verbale

Viviamo un tempo che impressiona anche per la violenza verbale, esercitata perfino nel dibattito sulle guerre, abdicando al senso del tragico e al rispetto che dovrebbero caratterizzare chi ha il privilegio di non vivere in teatri di conflitto. E invece anche qui, nell’Italia in «pace» e sicura, si perpetuano manicheismi polarizzanti, figli di ideologiche impermeabili alla giustizia, che fanno velo alla capacità di stare davanti ai fatti per quello che sono, una volta accertati. Possono far male pure giudizi non violenti ma ingiusti, immotivati e delegittimanti. Il direttore de «La Stampa», Andrea Malaguti, professionista serio e non ascrivibile ad appartenenze politiche estremiste, in un recente convegno organizzato dal Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) a Roma si è dovuto difendere dall’accusa di antisemitismo affibiatagli perché il quotidiano torinese ha raccontato, come altri, i massacri di decine di migliaia di civili e le distruzioni nella Striscia di Gaza, dando voce alle vittime in quella terra martoriata. Peraltro, ha ricordato lo stesso direttore, il giornale aveva fatto memoria del secondo anniversario del pogrom perpetrato il 7 ottobre 2023 da Hamas con un reportage dall’area del Nova Festival in Israele, dove vennero uccisi 344 giovani e 44 presi in ostaggio. Questo racconto, nel clima sociale ammorbato nel quale viviamo, può valere invece l’accusa di sionismo.

Prima come cittadini che come giornalisti, è sconfortante constatare questa pericolosa deriva del pensiero e del linguaggio, non solo delle azioni. La libertà che dovremmo tutelare è anche quella dai propri pregiudizi, dalle ideologie che rinchiudono in false certezze, una forma di schiavitù mentale inconsapevole che danneggia la convivenza civile e la corretta, preziosa dialettica democratica. È un’emergenza.

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