I vincoli per la Meloni sulla strada tracciata

I fatti hanno la testa dura e il principio di realtà, nella sua durezza, reclama la propria parte: succede così quasi sempre ed è questo il criterio per misurare la compatibilità delle parole spese in campagna elettorale. Giorgia Meloni aveva detto che, quando toccherà a lei, sarà una faccenda da non dormire la notte. Esatto.

L’esordio della destra di governo, quando verrà il momento, avviene nel pieno di choc internazionali senza precedenti e sotto gli occhi vigili, e talora preoccupati, delle istituzioni internazionali. Un aggravio di responsabilità, l’urgenza dell’equilibrio, la verifica della qualità e di quale pasta è fatta la nuova classe dirigente. L’Italia ha la garanzia di Mattarella e, oltre confine, può sempre contare su Draghi, mentre sui grandi problemi il percorso del prossimo governo è già stato tracciato da altri nelle linee essenziali. Comunque un sentiero stretto. L’esecutivo uscente, nei limiti delle condizioni date, lascia un’eredità da non disperdere: significa che la forza negoziale del Paese è direttamente proporzionale al grado di affidabilità che siamo in grado di offrire sulle scelte che contano e sul rispetto degli impegni sottoscritti. Il sostegno alla resistenza dell’Ucraina non ha alternative, a maggior ragione dopo il colpo di mano di Putin, l’annessione delle 4 regioni ucraine. Nessuna compagine può deviare dalla disciplina di bilancio, specie con il debito pubblico che abbiamo. Sul fisco, dove il centrodestra intende procedere con la flat tax, può apprendere la lezione inglese: l’infarto della sterlina dopo la decisione della premier, Liz Truss, di abbassare le tasse ai ricchi.

Sul Pnrr Draghi ha accelerato e l’idea di rinegoziare parzialmente il Piano andrà ponderata: rischiamo d’imbarcarci in un’avventura là dove fior di economisti precisano che il cambio di scenario (dal Covid alla guerra e alla crisi energetica) interessa solo marginalmente l’impostazione di fondo del programma di investimenti. Difficile aspettarci aiuti da Bruxelles e poi lasciar intendere che si vorrebbe rivedere la supremazia dei Trattati europei sulla legislazione nazionale. Su tutto dominano il prezzo del gas alle stelle e le bollette da guerra: il sistema energetico europeo sembra aver preso il posto di quello finanziario come anello debole del modello continentale. L’assenza di un tetto al prezzo del gas sarà forse l’incompiuta di Draghi, soprattutto dopo la fuga in avanti della Germania consumata a propria esclusiva tutela: l’ex banchiere centrale avrebbe avuto bisogno ancora di alcuni mesi e in ogni caso se non è riuscito lui a convincere i partner europei (a parte i 14 schierati con l’Italia), difficile che l’impresa riesca a qualcun altro. In questi giorni di contatti informali tra Meloni e gli alleati s’è notato da parte della vincitrice delle elezioni una posizione più vicina all’Europa e non sovranista (ad esempio sull’energia), rinsaldando l’allineamento già in corso con il premier uscente. Al compimento della procedura costituzionale (le consultazioni del Capo dello Stato e l’affidamento dell’incarico), la leader della destra potrebbe arrivare in sintonia con Draghi su alcuni dossier, ma disallineata rispetto a Salvini, il quale è retrocesso, insieme con Berlusconi, da socio di maggioranza a socio di minoranza. Il problema politico è come disinnescare la mina Salvini senza mortificarlo, tanto più che il capo leghista ha adesso un guaio in più sull’uscio di casa, al Pirellone, con lo scontro fra il governatore Fontana e la sua vice Letizia Moratti. Il Capitano è in arretramento ovunque e oggi i suoi margini di manovra sono delimitati dalla fin qui controllata reazione dei governatori: l’incantesimo s’è frantumato nella terra d’elezione. È un leader usurato e debole, condizione attestata pure dall’improbabile ritorno al Viminale: una debolezza esposta alla rivincita che impatterà sulla coesione del centrodestra, o destra-centro.

Tuttavia il Carroccio mantiene una ragguardevole forza parlamentare (per effetto della legge elettorale ha lo stesso numero di deputati del Pd) in grado di condizionare Meloni sulla squadra (il presidente della Repubblica nomina il capo del governo e, su proposta di questo, i ministri), sulle linee programmatiche e sul comportamento della coalizione. Come sempre vedremo all’opera il bilancino del manuale Cencelli, osserveremo quale coerenza verrà applicata alle competenze e quale peso avranno i tecnici, sui quali c’è già il no di Berlusconi («Non credo nei tecnici puri»). Un indizio del bon ton istituzionale si avrà con l’elezione dei presidenti delle Camere, un appuntamento che riguarda pure le opposizioni, anche se non dovessero esprimere un candidato. Lavori in corso nel campo terremotato del centrosinistra, al capezzale del Pd lettiano: il prossimo congresso, più o meno rifondativo, dirà se e in che modo questo «soggetto irrisolto», a lungo il baricentro del sistema, risolverà lo psicodramma del 25 settembre. Sullo sfondo del duro contrasto politico s’affaccia la necessità di un nuovo stile anche nella polemica e di una legittimazione reciproca sulla base dei fondamentali repubblicani. Prendendo a prestito alcuni concetti scritti recentemente dal direttore della «Civiltà Cattolica», il gesuita Antonio Spadaro, ci si dovrebbe interrogare sulla riabilitazione della moderazione come rinuncia all’eccesso: «La moderazione è un esercizio di radicalità, nel senso che non istiga, non cerca capri espiatori, non vive di indispensabili contrapposizioni».

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