Il debito pubblico, doppia prova per il governo

ITALIA. La furibonda polemica con l’opposizione per il rinvio della discussione parlamentare della proposta sul salario minimo, l’annuncio di una montagna di emendamenti alla manovra da parte delle minoranze, la prospettiva di uno sciopero generale evocata da Maurizio Landini, sono tutti elementi che ci dicono quanto sarà politicamente «caldo» questo autunno.

Ma per il governo c’è in agenda una prova ancora più impegnativa che forse sfugge ai più: l’Italia sta per affrontare il giudizio delle agenzie di rating sul nostro maxi debito pubblico ormai arrivato a quasi 2.900 miliardi, pari al 135% del Pil. Già da domani infatti si esprimerà Standard &Poor’s, poi toccherà alle altre per finire con Moody’s il 17 novembre (da ricordare che quest’ultima, la più importante delle agenzie, ci aveva già assegnato un outlook negativo). Un colpo di mannaia sul nostro rating potrebbe rendere la manovra un documento ingestibile agli occhi dei mercati, della Commissione europea e della Bce. Alcuni tuttavia coltivano una speranza, fondata sulla drammatica instabilità del quadro geopolitico del momento: affondare l’Italia declassando ulteriormente il suo debito pubblico significherebbe colpire lo schieramento occidentale e della Nato di cui l’Italia occupa un quadrante fondamentale allungandosi nel Mediterraneo con le sue coste ad un passo dal Nord Africa. Quindi ci potrebbe essere una qualche forma di comprensione nei nostri confronti: ma è chiaro che si tratterebbe di un rinvio, non certo di una promozione. Vedremo.

C’è un altro elemento di riflessione da tenere presente: Giorgia Meloni aveva in progetto di entrare nella stanza dei bottoni dell’Europa alle prossime elezioni europee mediante una prevista sconfitta dei partiti che attualmente tengono in piedi la Commissione Von der Leyen: socialisti, popolari, liberali, e una conseguente vittoria del fronte di centrodestra. La speranza era quella di costruire un’alleanza senza socialisti e con dentro i Conservatori (di cui Meloni è presidente europeo). Ma le elezioni polacche (vittoria del fronte europeista guidato da Tusk, battuta d’arresto per la destra del Pis), seguite a quelle spagnole (crollo della destra di Vox) ha ormai cambiato il quadro: lo schieramento cui fa riferimento la nostra presidente del Consiglio sta vedendo svanire il suo sogno di governare a Bruxelles. Ciò indebolisce il governo italiano e tendenzialmente lo isola: sempre al netto dell’emergenza geopolitica che mette in sordina le rivalità e le tensioni tra alleati, c’è però la concreta possibilità che chi oggi governa la Commissione europea, sapendo di poterlo fare anche dopo giugno 2024, sarà meno accondiscendente con le nostre problematiche finanziarie , ci chiederà di fare di più per ridurre il debito, sarà meno disposto a negoziare regole flessibili del nuovo Patto di stabilità, e soprattutto smetterà di sopportare il continuo rimando italiano della ratifica della riforma del Mes.

Conclusione: a Palais Berlaymont Giorgia Meloni potrebbe avere anche più problemi di quante gliene promettono in patria Elly Schlein, Giuseppe Conte e Maurizio Landini . Ciò non toglie naturalmente che la battaglia domestica che si intravede sarà per niente facile. Da tener presente infine che l’ordine meloniano ai partiti della maggioranza di non presentare emendamenti alla manovra ha profondissimamente irritato il corpo parlamentare, già frustrato a causa della sua progressiva irrilevanza politica. Tanto ha fatto arrabbiare deputati e senatori che ora si parla di uno stanziamento di altri 400 miliardi da destinare a «piccoli adeguamenti», vale a dire alle mille richieste localistiche che i parlamentari sono abituati ad avanzare in occasione dell’esame di bilancio. Una legge-mancia, come viene sprezzantemente definita: ovviamente in deficit dal momento, come ripete sempre Giorgetti, che «risorse non ce ne sono».

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