Il fronte sociale: rischio fratture

ITALIA. Quel che balza all’occhio è lo scarto fra il dinamismo di Giorgia Meloni sullo scacchiere internazionale e le fatiche paralizzanti del governo sul fronte interno, per quanto siano due facce della stessa medaglia.

L’«io» della premier ha sovrastato un po’ tutto, svolgendo indirettamente un ruolo di supplenza, quasi a compensare i risultati di una destra di governo che tardano a venire. Dalla sintonia con Biden alla conclusione del caso Zaki, dal buon rapporto con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, alla strategia nel Mediterraneo allargato, la presidente del Consiglio ha costruito un’agenda chiara e riconoscibile: c’è un’impronta da accredito personale, e si vede, pur nel solco di una continuità della diplomazia italiana, che ha ricevuto apprezzamenti. Questa cornice trasparente non si trasferisce in automatico sul piano interno perché, tralasciando qui scivoloni individuali da eredità postmissina, la maggioranza non riesce a esprimere una propria identità, far capire con i fatti di che pasta è fatta. Soprattutto sul lato economico e sociale.

Nella stagione del forzaleghismo sapevamo che la triangolazione Berlusconi-Bossi-Tremonti puntava sulle partite Iva e sul protagonismo del capitalismo molecolare del Nord. Sembra un paradosso per una destra senza complessi, eppure se cerchiamo un nome appropriato per definirla non lo troviamo: conservatrice, liberale, sociale, corporativa? L’incidente parlamentare, non il primo, sul via libera del governo alla patrimoniale (un ordine del giorno della sinistra), benché rimediato in extremis, è imbarazzante. Indica che qualcosa non funziona nel coordinamento della maggioranza e nella comunicazione pubblica. La cessazione del Reddito di cittadinanza per decine di migliaia di persone rinvia alla voce «sciatteria istituzionale». Iniziativa attesa per uno strumento inizialmente pensato a fin di bene, confezionato male (ricordate la storiella dei grillini sulla fine della povertà?), bisognoso di essere riformato, ma archiviato in modo maldestro. Un passaggio non gestito, fatto con un sms e svolto con freddezza burocratica, confidando nella distrazione collettiva dell’Italia balneare. Un discrimine, quello dell’«occupabilità», introvabile nella letteratura scientifica e che difficilmente può trovare sbocco: sia perché le politiche attive sono inadeguate sia perché l’offerta della formazione professionale è peggiore nelle regioni in cui ci sono più disoccupati.

Il risultato è che torneremo a non avere una misura universale contro la povertà in un Paese in cui il disagio sociale scivola verso forme di lacerazione. Fra ascensore sociale fermo da tempo, produttività che non cresce, stipendi erosi dall’inflazione, il Robin Hood alla rovescia che continua a mordere quei ceti popolari che, in parti consistenti, prima hanno fatto la fortuna elettorale dei 5 Stelle e poi della destra. La questione sociale, priva di un corretto approccio, resta intatta, rimane lì riproducendo ingiustizie di lunga durata. È la grande questione nazionale, mentre sul salario minimo il governo è costretto a rincorrere le opposizioni ed è sfidato su un tema molto popolare. Per cui la domanda è se non ci sia una sottovalutazione di questa emergenza e che cosa mettiamo al posto del Rdc. Perché la severità punitiva osservata in questa circostanza, e degna di miglior causa, non è replicata in altri ambiti. Sulla riforma fiscale non si capisce se, e in che termini, la lotta alla slealtà di massa sia un obiettivo nel Paese dei «poveri benestanti», dove l’evasione è stimata in circa 100 miliardi all’anno e dove si ricorre all’invenzione dell’evasione «per necessità»: ricompensa alla propria base elettorale? Nel Pnrr il progetto iniziale prevedeva che le amministrazioni riducessero la propensione all’evasione delle imposte, rispetto al 2019, del 5% quest’anno e del 15% nel 2024. Il governo ha proposto di rinviare l’introduzione delle nuove norme di contrasto, osservando che molte imprese oggi hanno problemi di liquidità e quindi non sono in grado di pagare le imposte entro le scadenze stabilite. Richiesta a dir poco bizzarra l’ha definita Francesco Giavazzi sul «Corriere», economista dell’establishment liberale e già consigliere di Draghi a Palazzo Chigi: la liquidità di un’impresa non ha nulla a che fare con l’evasione, per cui «la modifica richiesta sembra più un segnale agli evasori».

Siamo prossimi a un autunno tribolato e non solo perché la serie statistica lo vuole «caldo». L’economia rallenta, la produzione industriale cala, l’inflazione e gli alti tassi restano fra noi. La manovra di bilancio non ha grandi spazi fiscali e giocarsi qualche jolly elettorale in vista delle Europee sarà un azzardo. La maggioranza arriva all’appuntamento con la promessa di uno slancio riformista che s’è attenuato nel gioco del rinvio. Trent’anni fa nell’estate 1993, l’Italia, a un passo dall’abisso, uscì dalla crisi con la concertazione fra governo Ciampi e parti sociali. Un metodo collaborativo nello spirito repubblicano. Una pagina di storia che può dire ancora qualcosa.

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