Il governo alla sfida tra sinistra e sindacati

ITALIA. Il Consiglio dei ministri convocato il 1° maggio e il decreto lavoro all’ordine del giorno della riunione avevano due scopi: rompere per la prima volta il monopolio del sindacato e della sinistra nella giornata dedicata ai lavoratori e dimostrare coi fatti che la destra ha una sua politica sociale diversa e non subordinata a quella dei progressisti.

La riunione organizzata in fretta e furia la sera precedente convocando i segretari dei sindacati confederali aveva uno scopo meramente mediatico: dimostrare che il governo non intende rompere con quel mondo («Siamo per la mano tesa») anche se contemporaneamente agisce per colpirne il monopolio, almeno quello simbolico forse l’unico veramente rimasto in mano a Cgil, Cisl e Uil.

Era proprio nella data della convocazione del Consiglio dei ministri, il 1° maggio, assai irrituale, il cuore dell’operazione mediatica (coronato poi da un video della presidente del Consiglio interpretato con grande professionalità dalla protagonista), ma le decisioni conseguenti dovevano diventarne l’argomento inattaccabile. Come criticare infatti il taglio del cuneo fiscale, oggetto dei programmi di governo almeno dai tempi dell’Ulivo di Romano Prodi che fu il primo a parlarne negli anni ’90 in termini all’epoca considerati astrusi e incomprensibili? Da allora il «cuneo fiscale» è diventato un leit motiv dei governi: tutti, centrodestra e centrosinistra, tecnici e politici, hanno promesso di tagliarlo, alleggerirlo, modificarlo per «mettere dei soldi nelle tasche degli italiani».

Poi dalle promesse ai fatti c’è sempre stata una certa differenza. Ora Meloni il 1° maggio ha annunciato che il «suo» taglio (che porta in busta paga dal 50 ai 100 euro al mese, per una spesa di 3,5/4 miliardi da adesso a dicembre ’23) è «il più rilevante che sia mai stato fatto nella storia repubblicana». Ed è proprio questa vanteria che ha reso meno inattaccabile il provvedimento: calcolatrice alla mano, c’è chi ha tagliato di più. A Renzi si attribuiscono sforbiciate per 25 miliardi (molti dei quali spesi per i famosi 80 euro grazie ai quali stravinse le elezioni europee), vari economisti conteggiano intorno ai 10 miliardi le operazioni targate Draghi. Trovata la crepa, sinistra e sindacati hanno cercato di approfondirla accusando il governo di aumentare la precarietà del lavoro (sono tornati in auge i voucher fatti cancellare d’imperio a suo tempo dalla coppia Landini-Camusso) e di combattere non la povertà ma i poveri, avendo Meloni quasi cancellato il reddito di cittadinanza, la creatura dei grillini, motivo per cui Conte sta organizzando una manifestazione nazionale di protesta.

Adesso però per il governo viene la parte più difficile: il taglio del cuneo è a tempo, scade alla fine dell’anno. Per renderla stabile servono almeno altri 11 miliardi che, con i tempi che corrono, non sono pochi. Senza considerare che ieri il viceministro dell’Economia Leo (FdI) ha annunciato anche l’intenzione di diminuire la tassazione delle tredicesime e di portare per tutti a 3mila euro il tetto per la defiscalizzazione dei fringe benefit. Tutte spese che vanno finanziate: come? Leo confida nella riforma fiscale che sta faticosamente procedendo in Parlamento e nell’andamento dell’economia migliore delle attese. Ma non è detto che le risorse siano sufficienti.

Mantenere le promesse sin dal prossimo Natale si dovrà, dal momento che la prossima primavera si voterà per le elezioni europee, primo test per il governo. Proprio come accadde a Renzi subito dopo gli 80 euro.

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